“Il “bisogno” intellettuale simile al bisogno sessuale”. Così suona l’ultima frase che chiude il primo volume dei diari di Susan Sontag, Rinata. Diari e taccuini 1947-1963 (Nottetempo) tradotti da Paolo Dilonardo. Questa frase, scritta alla fine del 1963, quando cominciano ad apparire sulle riviste americane i suoi articoli, raccolti poi in Contro l’interpretazione, compendia tutta la personalità e l’opera di una delle maggiori saggiste della seconda metà del XX secolo. Bisogno intellettuale e bisogno sessuale sono fusi in lei, fusi e insieme conflittuali, come ci racconta questo diario composto di brevi frasi, osservazioni, liste di libri, resoconti scarni ed essenziali della sua vita.
La giovane Susan non sa bene come fondere questi due aspetti, se aspetti si possono chiamare; per lungo tempo, almeno stando a quanto scrive, ritiene che siano disgiunti. Come dirà negli anni Settanta nell’intervista a Jonathan Cott apparsa su Rolling Stones (in forma estesa in Odio sentirmi una vittima, il Saggiatore), “esiste una struttura intellettuale del desiderio fisico, sessuale”, rovesciando così il dilemma che si era posta da adolescente nelle prime pagine di questo diario.
Suo figlio David Rieff, ha raccolto i taccuini che Susan teneva per sé e li ha resi pubblici. Sono oltre un centinaio. Che farne?, si è chiesto Rieff. La sua è stata una decisione non facile, dal momento che in queste pagine Susan Sontag rivela molto di sé, a partire dalla sua omosessualità che, per quanto conosciuta, non era mai stata fatta oggetto di discorsi pubblici. Qui racconta per lampi e squarci la sua relazione con Harriet Sohmers Zwerling – nei diari compare come H. – e poi quella con I. – María Irene Fornés – con cui è vissuta a New York dal 1959 al 1963. Chi si attende narrazioni scabrose, o dettagli sessuali inediti, resterà deluso. La scrittrice non racconta; punteggia piuttosto i suoi stati d’animo, i dolori e i fallimenti emotivi, e lo fa in modo diretto; e come il resto della sua attività di scrittrice, sono colpi di sciabola, fendenti che l’attraversano e la lasciano stupefatta. Persino le pagine dedicate alla riflessione sulla propria omosessualità, sui dubbi e le sensazioni che questa le crea, appaiono pregne della sua passione intellettuale: vuole sempre capire.
Capire per Susan Sontag vuol dire afferrare, poiché lo strumento che usa è l’intelletto; a un certo punto si definisce una kantiana, poiché per lei la comprensione non può che essere intellettuale, un’intellettualità però intrisa di sessualità. Se c’è una cosa che queste pagine intime mettono a nudo è proprio questa sessualizzazione di ogni aspetto intellettivo.
Capire vuol dire afferrare, stringere a sé, e nel contempo ferirsi, restare colpita nel corpo a corpo con la propria vita, con la propria capacità di comprensione. A Susan Sontag non interessa il come; è invece per il perché. Eppure, come scopre presto, non c’è un solo perché, ma molti, contemporaneamente veri, o anche completamente falsi. Questo ci fa capire la natura così straordinaria dei suoi scritti, effetto di quel doppio movimento: frutto della natura sessuale del suo intelletto, e nel contempo della natura intellettuale del desiderio fisico.
Ci sono righe dedicate all’orgasmo che mostrano come il sesso sia, al pari della attività letteraria, una lotta fatta di sconfitte e brevi riuscite, di fallimenti e tentativi per raggiungere la vetta del piacere, e insieme goderne con la mente. Sono cose strettamente intrecciate, che fanno sì che i risultati raggiunti nelle sue opere, ottenuti con pazienza e dedizione certosina, siano l’effetto di quel doppio movimento che conosce solo un punto d’intersezione. Il centro del chiasmo tra sessualità e intelletto è il punto cieco della sua personalità umana e letteraria. Per quanto le due cose appaiono inseparabili; per questo il vertice d’intelligenza che è presente nei suoi scritti è debitore del desiderio che alimenta entrambi gli aspetti della sua personalità. Susan Sontag è unica per questo. Se è vero che ci sono tante ottime scrittrici e brave saggiste, lei fa un passo più in là; meglio: a fianco; e raggiunge una terra di nessuno dove la solitudine è la condizione perfetta e insieme imperfetta. Non ci può fare nulla, come capisce pian piano scrivendo per sé i taccuini che ora leggiamo.
In varie occasione ha parlato della fatica che le richiedeva lo scrivere, scrivere e riscrivere, per cercare la forma giusta, che è per lei un fatto estetico prima di tutto. L’estrema morbidezza della sua lingua, unita alla decisione con cui le parole sono posate sulla pagina, parole che fanno continuamente attrito con gli oggetti di cui si occupa. Giudica sempre, come del resto fa anche con se stessa. Non c’è una sola riga di autocompiacimento, o di patetismo, in queste pagine. Nessun frammento o dettaglio può far credere che si sia concessa qualche forma di consolazione. Eppure non è mai davvero dura. C’è una dolcezza del pensiero, anche in quello estremo cui sembra tendere, questo perché, come ogni cosa che si può dire e pensare, è per lei assoluto. Tuttavia è tutto delicato, femminile, persino materno: con se stessa, con i pensieri, con le persone che ama, che desidera e con cui fa l’amore, spesso in modo insoddisfacente.
Sembra che Susan si attenda da un momento all’altro una rivelazione, quasi un momento estatico, in cui tutto appaia in una luce inattesa, ma, da miscredente qual è, non ci crede mai davvero; eppure non cessa di anelare a questo. La sua religione è quella della forma, una forma informe che solo con pazienza e impegno riesce a ricondurre a qualcosa per lei accettabile.
Straordinaria appare un’annotazione riguardante i Diari di Gide che ha appena letto: “io e Gide abbiamo raggiunto una comunione intellettuale così perfetta che sento le doglie per ogni pensiero che lui dà alla luce!” (10 settembre 1948). Ha quindici anni, ed è già una formidabile lettrice, e insieme una scrittrice; scrive attraverso gli altri, cosa che poi diventerà la forma propria della sua stessa attività letteraria e recensoria. Di più: c’è la maternità del far nascere idee per interposta persona. Partorisce per empatia il pensiero dell’altro. Basta questa annotazione, unita a un’altra qualche riga dopo (“Perché il libro non l’ho semplicemente letto, l’ho creato io stessa”), a far intendere cosa significhi il titolo del suo libro più importante, Contro l’interpretazione. Susan non è una critica, non produce interpretazioni, ricrea piuttosto i libri che legge, li riscrive e fa nascere le idee. Per questo quando leggiamo un suo testo ci si rende conto che sta compiendo un atto materno. La sua stessa omosessualità non appare estranea a questo modo di leggere e scrivere. Diventa la forma stessa del suo stile. Da ragazza sente il bisogno di amore fisico, scrive, e di compagnia intellettuale (25 dicembre 1948); il binomio che l’accompagnerà in seguito e che trova nell’omosessualità la sua forma possibile.
Quando scopre di “avere tendenze lesbiche”, come scrive, ha un sussulto, un dubbio, ma subito capisce che l’omosessualità non è solo un fatto fisico, bensì un fatto mentale: “la mia mente è dominata da spasmi di desiderio incontrollabile” (25 dicembre 1948). Per qualche tempo i taccuini ci restituiscono il conflitto che la attraversa, che non è quello del semplice desiderio sessuale, ma di qualcosa che le apparirà nel corso degli anni Cinquanta più complesso: “Voglio andare a letto con molte persone – voglio vivere e aborro la morte – non insegnerò, né prenderò un master dopo la laurea… non intendo lasciarmi dominare dall’intelletto” (23 maggio 1949).
Ha già iniziato la relazione con H. e dubita di se stessa; non ha ancora trovato la soluzione per ricomporre il doppio desiderio che la possiede. Cerca nell’ambito del piacere fisico, “senza compagnia intellettuale”, scrive. E poco dopo si domanda: “Quanta parte dell’omosessualità è narcisismo?” (12 settembre 1949). Sta già diventando la scrittrice che conosciamo. Un passo del 1957, intitolato “Sul Tenere un Diario”, mostra a che punto è arrivata. Il diario, scrive, non è ricettacolo dei propri pensieri privati o segreti; non si limita a esprimere se stessa in quei taccuini, in modo più aperto di quanto potrebbe fare con un’altra persona. No, lei crea se stessa (“creo me stessa”). Ciò che la spinge a scrivere è la ricerca d’identità, non per scoprirla, bensì per produrla, per generarla, per partorirla.
Il problema del narcisismo è tradotto in senso più letterario in “egotismo”. Ha fatto il salto decisivo: “Mio povero, piccolo ego, come ti senti oggi?” si chiede ironicamente, e anche dolorosamente, il 2 gennaio 1958. Ha cominciato a scrivere un romanzo e altri ne ha progettati, come è visibile nei taccuini. Le sue relazioni amorose e sessuali non sono semplici. Anzi. Negli appunti del diario si leggono dolorose constatazioni, momenti di rabbia e di sconcerto, di paura e di riflessione. Arriva a scrivere: “Il sesso non è un progetto (a differenza dello scrivere un libro, del far carriera, del crescere un figlio). Il sesso si consuma ogni giorno. Non ci sono promesse, non ci sono scopi, niente è posposto. Non è una accumulazione” (dopo il 1961). E a un anno di distanza: “Subordino il sesso al sentimento – persino mentre faccio l’amore” (5 marzo 1962).
Il desiderio fisico resta la sua musa che la visita a intervalli, e complica i suoi pensieri, li rende più efficaci, annoda strettamente corpo e mente, sesso e intelletto. Tutto in questo primo diario pubblicato (ne seguiranno altri due) è intessuto di riflessioni di questa natura. Vive un’inquietudine. Non sta mai ferma, non riposa mai, non trova requie; va avanti e indietro tra i due poli della sua personalità e cambia loro continuamente di posto. Se dal 1947 al 1962 è il corpo, la sessualità, il desiderio sessuale, a prendere il sopravvento, poi sarà l’altra parte, l’intelletto, ad avere in apparenza la meglio: sessualizza l’intelletto. Scrive: “Devo rendere cognitivo il sesso+sensuale la conoscenza – per correggere lo squilibrio attuale”.
Non raggiungerà mai quello stato di quiete in cui non c’è più squilibrio. Tutto le resterà instabile, irrisolto. A letto come sulla pagina. Resta solo l’incedere dello squilibrio continuo, divisa a metà, eppure perfettamente risolta nelle sue pagine. L’opera maggiore è stata la costruzione di sé, per questo le sue pagine sono alla fine così risolte, e insieme così increspate. Aprendo un suo libro, leggendo anche solo poche frasi, non si riesce mai a capire se è mosso il fondo che s’intravede laggiù, oppure se è la superficie della frase quassù a vibrare. Tutto appare in quiete e insieme senza requie. Come lei.
(Marco Belpoliti, Doppiozero, 5 novembre 2018)
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