domenica 28 febbraio 2010

Frida Kahlo (ma anche Alda Merini e i Café Tacuba)


I miei poveri versi
non sono belle, millantate parole,
non sono afrodisiaci folli
da ammannire ai potenti
e a chi voglia blandire la sua sete.
I miei poveri versi
sono brandelli di carne
nera disfatta chiusa,
e saltano agli occhi impetuosi;
sono orgogliosa della mia bellezza;
quando l’anima è satura dentro
di amarezza e dolore
diventa incredibilmente bella
e potente soprattutto.
Di questa potenza io sono orgogliosa
ma non d’altre disfatte;
perciò tu che mi leggi
fermo ad un tavolino di caffè,
tu che passi le giornate sui libri
a cincischiare la noia
e ti senti maestro di critica,
tendi il tuo arco
al cuore di una donna perduta.
Lì mi raggiungerai in pieno.
(Alda Merini)






No me hubieras dejado esa noche
por que esa misma noche encontre un amor

No me hubieras dejado esa noche
por que esa misma noche encontre un amor

Parecia que estaba esperando
tu momento de partir
parecia haber observado
mis momentos junto a ti

No me hubieras dejado esa noche
por que esa misma noche encontre un amor

No me hubieras dejado esa noche
por que esa misma noche encontre un amor

Me abrazo el instante mismo
que tu me dijiste adios
y no fue una gran tristeza
fue como ir
de menor a mayor

"Tu regreso habia esperado
mas te veia muy feliz
en los brazos de tu amada
te olvidaste tu de mi"

"Mas ahora que recuerdas
a mis brazos vuelves ya
sere por siempre tu amante,
tu novia... La soledad"

"Y si alguna vez regresas
con aquella que te amo
sabes no sera lo mismo
pues tambien me conocio"

No me hubieras dejado esa noche
porque esa misma noche encontré un amor
(mi soledad siempre ha pertenecido a ti)
...
(Café Tacuba)

sabato 27 febbraio 2010

giovedì 25 febbraio 2010

Bandiere dei nostri padri




Ieri sera ho perturbato un po' l'universo. Ne ho aumentato un po' l'entropia facendo cose senza senso.

Per esempio ho regalato un DVD (This is It) ad uno sconosciuto (ma mi è costato parecchio: oltre al costo del DVD ho dovuto aggiungere i soldi della multa per l'auto parcheggiata sulle strisce blu senza aver pagato il tagliandino e poi l'invio per raccomandata del DVD stesso al destinatario).

E poi mi sono comperato un altro bellissimo DVD tutto per me e me lo sono gustato prima di andare a letto. Si tratta del palindromo FooF di Clint Eastwood. Io amo profondamente questo regista. Negli ultimi anni non mi sono perso nessuno dei suoi film e sono veramente in ambasce se dovessi scegliere il migliore fra di essi. FooF mi è piaciuto perché è la metà di un progetto di cui l'altra metà (Lettere da Iwo Jima) è altrettanto bella e complementare. Forse il migliore film, dal 2003 in poi, di questo ottantenne regista rimane Million Dollar Baby. Ma ricordo con molto molto piacere anche Mystic River e
Gran Torino. A differenza di ZC che è capace di ben esprimere perché un film le piace o meno e quali aspetti gradisce di più, io invece non sono capace di grandi discorsi. Sono solo rapito dalla messa in scena e da quello che Eastwood riesce a farmi vedere e pensare. Devo assolutamente recuperare i DVD di Million Dollar Baby e Mystic River che sono rimasti in una casa in cui non abito più.



lunedì 22 febbraio 2010

Alassio - Imprinting


Ma la stazione di Alassio assomiglia a questa? Nel '73, a 15 anni, sono stato per la prima volta ad Alassio con la mia famiglia. Alloggiavamo in una pensioncina vicino alla stazione. E ricordo ancora che quella stazione mi piacque moltissimo (scattai anche delle foto che ovviamente adesso non ritrovo più) anche perché mi fecero tornare in mente la prima tavola di questa storia di Susanna e Celestino (cliccate sull'immagine qui a lato per vederla più grande) che lessi 4 anni prima, il Natale del 1969, in un supplemento del Corriere dei Piccoli. Non sono poi mai più tornato ad Alassio e, forse, non ho neanche più il coraggio di farlo per scoprire magari che la stazione è diversissima da questo bellissimo disegno di Dany per la serie di Olivier Rameau.


Nota a margine.
Quella gita fu importante anche per un'altro motivo. Lì ad Alassio acquistai per la prima volta un Urania (si trattava di Vento dal nulla di James Ballard) e quindi fu lì che cominciò il mio mai sopito amore per la fantascienza.

venerdì 19 febbraio 2010

Photographs & Memories






Photographs and memories
Christmas cards you sent to me
All that I have are these
To remember you

Memories that come at night
Take me to another time
Back to a happier day
When I called you mine

But we sure had a good time
When we started way back when
Morning walks and bedroom talks
Oh how I loved you then

Summer skies and lullabies
Nights we couldn’t say good-bye
And of all of the things that we knew
Not a dream survived

Photographs and memories
All the love you gave to me
Somehow it just can’t be true
That’s all I’ve left of you

But we sure had a good time
When we started way back when
Morning walks and bedroom talks
Oh how I loved you then

(Jim Croce, 1972)


martedì 16 febbraio 2010

Di seghe mentali di 50enni uomini e donne che si rincorrono senza trovarsi






Il titolo è copiato da un post di ZC.
Il video è di Benigni.
Le due cose sono legate dal fatto che un anno fa
ZC mi ha redarguito a non scrivere mai più poesie:

senta, dia retta alla zia, torni a scrivere pezzi
e lasci perdere le poesie...
[...]
lasci stare la poesia, che non fa per lei...



lunedì 15 febbraio 2010

Il continente invisibile


Dicono che l'Africa sia il continente dimenticato.
L'Oceania è il continente invisibile.
Invisibile, perché i primi viaggiatori che vi si sono avventurati non ne hanno colto la natura, e perché rimane ancor oggi un luogo senza riconoscimento internazionale, un passaggio, quasi un'assenza.



Cammino sulla spiaggia della Baia Homo, a Pangi. Forse uno dei più bei paesaggi del mondo.
[...]
Il mare è di un blu assoluto. Non quel turchese delle lagune che piace tanto ai turisti; un blu cupo, violento, profondo.



La kava è una bevanda notturna. Intorpidisce le mucose e rallenta il corpo, ma non la mente. Ti fa fluttuare. Ti trasforma in filosofo. La sua dolcezza amara, dal sapore terroso, avvolge il mondo esterno con un alone di lieve derisione (parlo per me). La kava ha senz'altro soffocato un gran numero di guerre, o anche di semplici conflitti domestici. Il mondo moderno ne avrebbe un gran bisogno.
[...]
Un tempo, nel Sud dell'isola, vivevano un orco e un orchessa che divoravano i bambini. Un ragazzino fu catturato con i suoi fratelli e rinchiuso nella casa dell'orso. Per scappare inventò uno stratagemma. Raccontò all'orco di essere uno spirito e disse che per averne la prova bastava dar fuoco alla casa, e lui non sarebbe bruciato. L'orco appiccò il fuoco e il ragazzino si nascose con i fratelli in un buco che aveva scavato nel pavimento. Vedendoli illesi, l'orco volle imitarli e morì bruciato nella propria casa. Quando l'orchessa si accorse che il marito era morto cercò di acciuffare i bambini, ma il ragazzino le scivolò tra le gambe, afferrò una pietra rovente e gliela conficcò nella vagina. L'orchessa morì immediatamente. Da quella pietra nacque la prima pianta di kava.



Oggi ogni minimo fazzoletto di terra, dal cuore della selva amazzonica ai canyom ghiacciato dell'Antardide, è stato esaminato, fotografato, sezionato dall'occhio freddo del satellite. Se ancora esiste un segreto, è racchiuso nel profondo dell'anima, nella lunga successione di desideri, leggende, maschere e canti che si mescola al tempo, risorge e corre sulla pelle dei popoli come un lampo d'estate.



Non è ironico che i più bei testi scritti su queste isole - Tanna, Ambrym, Hiva Oa, Nuku Hiva - siano opera dei due uomini che si sono comportati peggio con gli abitanti?
Il primo, Robert James Fletcher, che visse a Tanna, si nutrì dei suoi frutti, bevve la sua acqua e violò il corpo di una ragazzina appena adolescente, da cui ebbe due figli prima di donarla a uno dei suoi servitori e scrivere Isles of Illusions.
Il secondo, Paul Gaugin, che aprofittò della conquista per appagare i propri desideri e immortalò nel suo Noa Noa, diario di un uomo perverso, l'immagine di una donna polinesiana ridotta a semplice oggetto, liscio, morbido, mansueto.

 
(Jean-Marie Gustave Le Clézio)

Mai sedersi sul seggiolino centrale di un elicottero






Ieri pomeriggio al cinema godendoci dei bei disegni in movimento.



domenica 14 febbraio 2010

Amore che fuggi da me tornerai






Amore che vieni, Amore che vai.

Quei giorni perduti a rincorrere il vento
A chiederci un bacio e volerne altri cento
Un giorno qualunque li ricorderai
Amore che fuggi da me tornerai
Un giorno qualunque li ricorderai
Amore che fuggi da me tornerai
E tu che con gli occhi di un altro colore
Mi dici le stesse parole d'amore
Fra un mese fra un anno scordate le avrai
Amore che vieni da me fuggirai
Tra un mese tra un anno scordate le avrai
Amore che vieni da me fuggirai
Venuto dal sole o da spiagge gelate
Perduto in novembre o col vento d'estate
Io t'ho amato sempre non t'ho amato mai
Amore che vieni amore che vai
Io t'ho amato sempre non t'ho amato mai
Amore che vieni amore che vai.

(Fabrizio De André, 1966)
(Franco Battiato, 1999)

sabato 13 febbraio 2010

Luci d'ombra


Ieri, come due anni fa, la USL della mia città mi ha invitato alla campagna di prevenzione dei tumori intestinali. E come due anni fa, dopo aver ritirato le provette per le analisi ho deciso di regalarmi un giorno di ferie e me ne sono andato a Viareggio. Ho pranzato, di fronte al porto, con la mia amica FM, ho rivisto la mia ex-collega CR e mi sono goduto una bella mostra fotografica dove ho incontrato DDV.



La mostra è un viaggio per le antiche stanze dell'ospedale psichiatrico di Maggiano. Così lo ricorda Mario Tobino (a lungo medico prima e direttore poi di questo ospedale) nel suo "Le libere donne di Magliano" (1953):
Il manicomio si erge, bastione monumentale, su una collina che s’alza dopo la discesa del monte di  Quiesa; a poche centinaia di metri scorre il fiume Serchio.
D'estate le cicale vi cantano perdutamente. È un paese rinserrato e stretto che contiene circa mille matti e trecento infermieri; non si contano gli anditi, le scale, le soffitte che ogni generazione ha sfatto e aggiunto.
La distanza dalla città di Lucca è un poco di più di sette chilometri.
Una tale congregazione produce una continua sorgente di interessi e nella campagna attorno il manicomio è guardato come un fatto che sparge abbondanza.
Questa costruzione che raccoglie i pazzi è ben concreta e quell'idea che a chi occasionalmente passa sulla via Sarzanese dà di robustezza, è la stessa che hanno i prudenti e chiusi campagnoli.
 



Le foto, esposte fino al 21 febbraio nella villa Paolina Bonaparte, sono di Giovanni Nardini, che così introduce il suo lavoro:
Da più di trent'anni con la legge Basaglia i manicomi sono stati chiusi. Anche la fotografia contribuì a denunciare le condizioni disumane in cui vivevano i malati di mente in alcune di queste strutture e dopo una lunga battaglia la legge fu approvata. Da quasi dieci anni anche gli ultimi degenti hanno abbandonato questa monumentale struttura che si erge su una collina a pochi chilometri da Lucca.
È un luogo reso celebre dai bellissimi libri di Tobino che è stato medico qua per molti anni. Ora la struttura è chiusa, quasi abbandonata, preda di vandali, di sbandati, silenziosa testimone del dolore e del mistero della follia.
Vi sono entrato con le mie macchine fotografiche, con timore, rispetto. Sapevo che oggi la fotografia doveva avere un'altra funzione, molto diversa da quella di un tempo. Non vi erano più volti trasfigurati, gesti inconsulti, nudità. Le urla si erano spente. Dopo trent'anni cosa ci faceva un fotografo in quei luoghi? Ma la fotografia si nutre di ciò che è abbandonato, niente ha più fascino che dar vita a ciò che sembra dimenticato: non è forse questo il grande potere della fotografia?
Ho attraversato lunghi corridoi ababndonati, saloni immensi, celle sporche di escrementi, ho visto mure screpolate, soffitti aperti che facevano intravedere neri solai, bagni devastati e finestre che facevano filtrare luce a illuminare poveri resti, cose abbandonate. Ho visto i volti della follia negli ultimi autoritratti abbandonati nel salone dove si svolgevano le attività di pittura, scultura ed altro.
In un silenzio scuro ho incontrato in questi luoghi tracce del dolore, della sofferenza, della follia. M'immaginavo le urla, i deliri, rivedevo personaggi descritti da Tobino, "la Campani ancora giovane, bruna, bellissimi gli occhi, la gola lupina", mi immaginavo i deliri di pazienti abbandonati all'"alga", nelle celle delle agitate, le vedevo "pisciare verso l'aria e contro il muro, defecare ridendo... ballare cantando e arruffandosi la chioma come un Bacco eccitato...".
Non vi erano più i matti eppure ogni cosa mi parlava di loro, di quel misterioso dio che viveva dentro di loro. Ho fotografato il buio del dolore, della follia. ho gettato la luce della fotografia nei resti delle vite, nei segni labili che il tempo lasciava.
Cosa resterà di Maggiano, di questo castello, che nei secoli è passato da luogo religioso a manicomio, che così tanto ha inciso nell'immaginario della gente di queste terre? In cosa lo trasformeranno gli uomini di oggi che sembrano non avere più il senso della memoria? E quelle antiche scale che sembravano portare in chissà quali inferi, scendere nell'oscuro mondo della follia, dove portreranno? Vi sarà di nuovo vita? E quale vita, chi abiterà queste mura, saprà della Clerici "che implora uguale ad un arabo" o della Berlucchi "colei che implorava senza stancarsi, acutamente, come una tragica, che l'uccidessero perché sua ogni colpa"? E cosa resterà di quelle suore che frenando in loro ogni desiderio così totalmente si donavano ai folli? Oggi in questo luogo l'urlo della pazzia è avvolto in un grande silenzio. ma la magia della fotografia è anche quella di penetrare in questo silenzio, di dare voce, seppure flebile e dimessa, frammentaria, a chi sembra non avere più parole, di cogliere quella traccia di dolore e di sofferenza che è propria di quella "misteriosa e divina manifestazione dell'uomo" che è la pazzia.

La pazzia è come le termiti
che si sono impadronite di un trave.
Questo appare intero.
Vi si poggia il piede,
e tutto fria e frana.
Follia, maledetta, misteriosa natura.
(Mario Tobino)


Anche la follia merita i suoi applausi
(Alda Merini)

venerdì 12 febbraio 2010

Quale follia condurre un cieco a rimirare ciliegi in fiore!




Trobùl ekhé manuséske pach djéli:
ekh giuvél, ekh grast, ekh tséra, ekh jag,
taj vàreso soske te cingarél.

Un uomo ha bisogno di cinque cose:
una donna, un cavallo, una tenda, un fuoco,
e qualcosa per cui combattere.

(proverbio zingaro, formulato nell'idioma degli zingari Kalderàša)

10-minute guitar solo






Maggot Brain


Mother Earth is pregnant for the third time
For y'all have knocked her up.
I have tasted the maggots in the mind of the universe
I was not offended
For I knew I had to rise above it all
Or drown in my own shit.

Come on Maggot Brain
Go on Maggot Brain

 
(Funkadelic, 1971)

giovedì 11 febbraio 2010

A Thousand Years





A thousand years, a thousand more
A thousand times a million doors to eternity
I may have lived a thousand lives, a thousand times
An endless turning stairway climbs, to a tower of souls
If it takes another thousand years, a thousand wars
The towers rise to numberless floors in space
I could shed another million tears, a milllion breaths
A million names but only one truth to face
(I still love you)

A million roads, a million fears
A million suns, ten years of uncertainty
I could speak a million lies, a million songs
A million rights, a million wrongs in this balance of time
But if there was a single truth, a single light
A single thought, a singular touch of grace
Then following this single point, this single flame
The single haunted memory of your face

I still love you
I still want you
A thousand times the mysteries unfold themselves
Like galaxies in my head

I may be numberless, I maybe innocent
I may know many things, I may be ingnorant
Or I could ride with kings and conquer many lands
Or win this world at cards and let it slip my hands
I could be cannon food, destroyed a thousand times
Reborn as fortune's child to judge another's crimes
Or wear this pilgrim's cloak, or be a common theif
I've kept this single faith, this one belief

I still love you
I still want you
A thouand times the mysteries unfold themselves
Like galaxies in my head
On and on the mysteries unwind themselves
Eternities still unsaid
‘Til you love me
 

(Anna Maria Jopek, 2005)

sabato 6 febbraio 2010

Inferno - L'occhio testimone

Dopo aver passato la giornata di ieri in autostrada (10 ore e mezza di cui due e mezza fermo nello stesso imprecisato punto tra Calenzano e Barberino del Mugello) oggi è andata meglio e nel pomeriggio ho visitato una mostra fotografica a Seravezza.



Esponeva James Nachtwey e il titolo, non casuale, era "Inferno - L'occhio testimone". L'autore è uno dei più bravi fotografi di guerra che esista. Gli scatti proposti (in 10 ricche sale del Palazzo Mediceo di Seravezza) non lasciano tregua al pensiero che cerca un plausibile motivo per tutto ciò che gli occhi riportano. Non è una mostra facile. Non è una mostra leggera. È però una mostra molto bella, da vivere con la testa piuttosto che con gli occhi.




Nel 1985, subito prima di diventare un membro della famosa agenzia fotografica Magnum, il 36-enne James Nachtwey scrisse questa sua filosofia circa la rilevanza del suo lavoro come fotografo di guerra (il video è tratto da un documentario a lui dedicato).


Why photograph war?

There has always been war. War is raging throughout the world at the present moment. And there is little reason to believe that war will cease to exist in the future. As man has become increasingly civilized, his means of destroying his fellow man have become ever more efficient, cruel and devastating.

Is it possible to put an end to a form of human behavior which has existed throughout history by means of photography? The proportions of that notion seem ridiculously out of balance. Yet, that very idea has motivated me.

For me, the strength of photography lies in its ability to evoke a sense of humanity. If war is an attempt to negate humanity, then photography can be perceived as the opposite of war and if it is used well it can be a powerful ingredient in the antidote to war.

In a way, if an individual assumes the risk of placing himself in the middle of a war in order to communicate to the rest of the world what is happening, he is trying to negotiate for peace. Perhaps that is the reason why those in charge of perpetuating a war do not like to have photographers around.

It has occurred to me that if everyone could be there just once to see for themselves what white phosphorous does to the face of a child or what unspeakable pain is caused by the impact of a single bullet or how a jagged piece of shrapnel can rip someone's leg off - if everyone could be there to see for themselves the fear and the grief, just one time, then they would understand that nothing is worth letting things get to the point where that happens to even one person, let alone thousands.

But everyone cannot be there, and that is why photographers go there - to show them, to reach out and grab them and make them stop what they are doing and pay attention to what is going on - to create pictures powerful enough to overcome the diluting effects of the mass media and shake people out of their indifference - to protest and by the strength of that protest to make others protest.

The worst thing is to feel that as a photographer I am benefiting from someone else's tragedy. This idea haunts me. It is something I have to reckon with every day because I know that if I ever allow genuine compassion to be overtaken by personal ambition I will have sold my soul. The stakes are simply too high for me to believe otherwise.


La mostra resta aperta sino al 5 aprile (Lunedì di Pasqua) e, secondo me, vale la pena spendere un'ora della propria vita (e 5 € del proprio capitale) per visitarla. Se poi qualcuno volesse regalarmi il bellissimo e ricco catalogo gliene sarei proprio grato (costa solo 150 €).

Durante il ritorno verso Pisa mi sono goduto (gratis) uno stupendo cielo fiammeggiante sopra la pineta di San Rossore: un tramonto da ricordare.


8 febbraio. Aggiungo la traduzione in italiano del credo di
Nachtwey.
Perché fotografare la guerra?

Nel 1985, poco prima di diventare membro della famosa Agenzia fotografica Magnum, l'allora 36enne James Nachtwey scrisse questo testo, un credo sul valore del suo lavoro di fotografo di guerra.

C'è sempre stata la guerra. La guerra infuria in tutto il mondo ora. E non c'è motivo di credere che la guerra cesserà di esistere nel futuro. Dato che l'uomo è diventato sempre più civilizzato, i suoi mezzi di distruzione del suo simile sono diventati ancora più efficienti, crudeli e devastanti.

É possibile porre fine a una forma di comportamento umano che è esistita in tutta la storia con la fotografia? Le proporzioni di questa affermazione sembrano ridicolmente squilibrate. Tuttavia, proprio quell'idea mi ha motivato.

Per me, la forza della fotografia sta nella sua capacità di evocare un senso di umanità. Se la guerra è un tentativo di negare l'umanità, allora la fotografia può essere concepita come l'opposto della guerra e se usata bene può essere un ingrediente potente nell'antidoto alla guerra.

In un certo senso, se una persona assume il rischio di mettersi nel mezzo di una guerra per comunicare al resto del mondo ciò che accade, egli sta cercando di negoziare in favore della pace. Forse è la ragione per la quale quelli che sono responsabili di perpetuare la guerra non amano avere fotografi attorno.

Mi è capitato che se tutti potessero essere proprio là una volta per vedere con i loro occhi che cosa il fosforo bianco fa alla faccia di un bambino o che indicibile sofferenza è causata dall'impatto con una sola pallottola o come un frammento seghettato di granata può tagliare la gamba di qualcuno - se tutti potessero essere là per vedere con i propri occhi la paura e il dolore, solo una volta, allora capirebbero che non vale affatto la pena di lasciare che le cose arrivino al punto in cui ciò accada a una sola persona, per non parlare di migliaia.

Ma tutti non possono essere là, ed ecco perché i fotografi sono là - per fare loro vedere, per raggiungerli, afferrarli e fare loro smettere quello che stanno facendo e dedicare attenzione a ciò che succede - per dare vita a fotografie abbastanza potenti da sconfiggere gli effetti annacquanti dei mezzi di comunicazione di massa e scuotere le persone al di là della loro indifferenza - per protestare e con la forza di quella protesta fare sì che altri protestino.

La peggiore cosa è di sentire che come fotografo posso trarre beneficio dalla tragedia di qualcun altro. Questa idea mi tormenta. É qualcosa con cui debbo fare i conti ogni giorno, perché so che se mai permettessi alla mia sincera compassione di essere sopraffatta dall'ambizione personale avrei venduto la mia anima. La posta è semplicemente troppo alta per me per pensare in un altro modo.

Cerco di diventare il più possibile responsabile di fronte al soggetto. L'atto di essere uno che viene da fuori e che punta una macchina fotografica può essere una violazione dell'umanità. Il solo modo in cui posso giustificare il mio ruolo e di avere rispetto per la situazione difficile dell'altra persona. La misura in cui io faccio ciò è la misura in cui divento accettato dall'altro, e la misura in cui posso accettare me stesso.

giovedì 4 febbraio 2010

Perché ormai il sogno si è rattrappito




Qualcuno era comunista

(Gaber & Luporini)