martedì 29 aprile 2014

Il Landucci

Pomeriggio standard di ragazzini. Bicicletta, nel caso mio fieramente da cross, presa al Camp Darby, la base militare americana, a Tirrenia. Presa grazie al padre di Steven, il mio amico americano, figlio di un pastore militare. Grazie a lui ai piedi ho le prime All Star alte di tutta Pisa. Cazzo, me ne vanterò per sempre. E non parlerò del primo skateboard. 
Steven, il mio amico l’americano, è in quel momento, l’apice della modernità nel mio quartiere. Io gli sto accanto e godo di riflesso con oggetti, parole, modi di dire. 
I giorni in cui lui comincerà a chiamarmi Ureccia, per via delle orecchie a sventola ed io “La bodda” per il suo sovrappeso, sono ancora lontani. 
In quel momento siamo molto amici. 
Abbiamo dodici anni. 
Pomeriggio standard di ragazzini. C’è sicuramente Alberto. Forse Vito, che in quel momento è il più basso di tutti e con gli anni diventerà forse il più alto, specializzandosi come medico che fa nascere bambini alle coppie che hanno difficoltà nel concepire.

Nella mia memoria siamo nelle vicinanze del passaggio a livello che divide il quartiere di Portallucca da quello de “I passi”. Portallucca è il quartiere dei benestanti, “I Passi” quello dei malestanti, e come un prodromo di quel che sempre più assomiglierà alla società moderna, sono divisi da una ferrovia. Ricchi da una parte, poveri dall’altra. 
Su questa ferrovia ci sono passaggi a livello con tempi lentissimi. Cominciano a mandare suoni di campanella con dieci minuti di anticipo. Si formano code di auto. Solo uno di questi passaggi a livello è di ultima generazione e rapidissimo. E’ qui che siamo, nel mio ricordo. Lo ammiriamo, domandandoci se esistano dei sensori sui binari che si attivano al passaggio del treno. 
Un minuto prima che arrivi il convoglio le sbarre si chiudono. Dieci secondi dopo che è passato, si riaprono. Ammiriamo la modernità, sulle nostre biciclette, un piede a terra, l’altro sul pedale, ingobbiti sui manubri pronti allo scatto.

E poi qualcuno di vedetta, come un suricato di città, lancia l’allarme. “Il Landucci!”, grida.
Il Landucci è un vecchio. Di lui niente si sa. Solo che passa, a volte, sulla via del passaggio a livello con una vecchia bici da uomo con freni a bacchetta. Una bici vecchia, che in quel momento non ha ancora il fascino del vintage. Il Landucci è un vecchio, su una bici da vecchio, con una borsa di cuoio messa a canna della bici. Una borsa vecchia e schifosa, come lui. 
Non sappiamo che mestiere fa, non sappiamo perché pedali tutto curvo in quel modo, se le sue notti e i suoi risvegli sono accompagnati dagli scricchiolii del mal di schiena, non sappiamo se ha figli, una moglie, se ne ha avuta una, se l’ha perduta, se ha pianto, se è rimasto solo. Che lavoro fece il Landucci? Fu impiegato? Costruttore, operaio, commerciante? Non sappiamo niente di lui.
Quello che sappiamo invece è che ogni volta che arriva, con la sua andatura dondolante, sulla vecchia bicicletta, qualcuno lancia l’allarme e noi, tutti noi ragazzini, veniamo presi da una furia irrefrenabile. 
Il Landucci non può attraversare illeso la nostra zona. Questo non è ammissibile. Perché è vecchio e forse malato ed è, a pensarci adesso, forse, un futuro possibile che nessuno di noi vuole vedere.
Non sappiamo niente del Landucci ma la sua semplice esistenza ci disturba. Se al mondo non esistessero Landucci, vecchi claudicanti con biciclette arrugginite noi potremmo immaginare di restare adolescenti per sempre, potremmo ignorare i processi che portano il ferro immarcescibile e immortale ad ossidarsi, sgretolarsi e svanire addirittura, nei decenni.
Il Landucci è la negazione vivente della nostra illusione di immortalità. 
Questo penso ora, non lo pensavo allora, è chiaro. Ero un ragazzino su una bici da cross gialla e le prime All Star alte ai piedi. 

Quando vediamo il Landucci scendiamo dalle bici. Cerchiamo dei sassi. Gli tiriamo i sassi urlandogli contro.
Ricordo che non lanciamo offese. Solo sassi e il nome. Gridiamo “Landucci!” e via sassate, come se in quel nome fosse contenuto tutto, un pacchetto completo di vecchiaia, malattia, debolezza, tempo perduto, tutto insieme. Una cosa che odiamo. 
“Landucci!” e sassate.

Non esiste, penso ora, una parola che il Landucci potrebbe pronunciare per fermarci. Non esiste un gesto. Potrebbe fermarsi, scendere, o scappare, non cambierebbe niente nella nostra percezione. Potrebbe avvicinarsi, parlarci, spiegarci, raccontarci tutto di se. Non lo perdoneremmo comunque.
Landucci! gridiamo. E sassate.

Me lo ricordo bestemmiare, imprecare contro il mondo nuovo che è costretto ad abitare. Un mondo diverso da quello in cui è cresciuto, un mondo in cui non c’è rispetto o comprensione per i vecchi, i deboli, i malati. Un mondo che ha modi e gusti incomprensibili. Questo è il mondo in cui, povero Landucci, gli è toccato di invecchiare. Maledetto il mondo.
Maledetto il mondo e maledetti noi. Ci maledice mentre pedala. Si incurva ancora di più sul manubrio della bicicletta per evitare i sassi e ci maledice, cercando di raggiungere un punto ics dove ci stancheremo di perseguitarlo. Una zona sicura.

Mai. Mai avrei immaginato, allora, che sarebbe arrivato il giorno in cui sarei finito dall’altra parte della specie umana. Saremmo stai giovani per sempre, io e i miei amici, non perché lo desiderassimo ma perché ci era sconosciuto il pensiero stesso dell’età, del tempo che passa. Eravamo energia pura, un energia azzurra, immortale, fatta della stessa materia del vento e delle onde di Marina. Non c’erano pensieri proiettati in avanti nel tempo, eravamo presente fatto carne. Comunque assolutamente, inevitabilmente vincenti. Nessuno di noi era malato gravemente, non c’erano dolori del risveglio, circolazioni sanguigne difettose, problemi con gli zuccheri, melanconie immotivate. Eravamo azione pura. Convinzione pura.

Ho scritto queste parole dopo aver visto il video dell’inno del M5s per le elezioni europee. Me ne vergogno, perché altre motivazioni si dovrebbero avere per scrivere cose che altre persone, fossero solo due, forse leggeranno.
Ma è andata così. Voglio raccontarvelo: Nel video si vedono tante persone che sbattono i pugni sul tavolo. C’è una canzone che accompagna questi pugni. Un montaggio fatto con spezzoni inviati dai vari sostenitori e simpatizzanti in giro per l’italia. Nel sottopancia del video ci sono impressi i luoghi di provenienza. Livorno: pugni sul tavolo. Cosenza: pugni sul tavolo. Roma: Pugni sul tavolo. Singoli, coppie, famiglie.
E’ un montaggio, un videoclip su una canzone che parla del bene e del male. Quelli che hanno fatto il video rappresentano il bene e la voce cantante sottolinea, nel ritornello: 

E sbatterò i miei pugni su quel tavolo
e urlerò tutta la rabbia che c'è in me
E lotterò con le mie forze contro il diavolo
del dio denaro che ha corrotto le anime”

Il diavolo. Le anime. Quando ho visto il video ho subito avuto un moto di fastidio. Tutti i pugni sul tavolo dovevano stare a tempo con il rullante della batteria, era chiaro l’intento, ma non ce n’era neppure uno che ci stesse giusto. 
Visto che mi diletto di montaggio e sono un precisino, mi sono subito girate le palle per questo.
Non ci vuole davvero niente a fare un montaggio mettendo i pugni sul tavolo a tempo con la musica. E poi, insomma, non si era deciso che le cose fatte bene sono meglio di quelle fatte male?
No. Fatto bene e fatto male sono diventate condizioni soggettive.
Poi mi sono girate le palle per la questione del Diavolo e delle anime perché continuo a coltivare il sogno di una società laica basata sulla razionalità dove il Diavolo e l’anima possono tranquillamente togliersi dai coglioni.
E poi mi sono girate le palle per la somiglianza degli atteggiamenti con i famigerati spot di Italia 1, dove spettatori anonimi, gente comune, si prodigava nell’inventare modi per pronunciare quelle due parole: “Italia Uno!” appunto, nel modo più singolare e curioso possibile.
Nel video accadeva la stessa cosa. Qualcuno muoveva le labbra, timidamente, sul testo della canzone. Una ragazza ballava come una ballerina di tv, altri facevano facce buffe o espressioni accigliate. E poi via, al momento sbagliato, anche se di poco, sempre sbagliato, a sbattere i pugni sul tavolo.
Quasi nessuno sbatteva i pugni con sincera energia. Appoggiavano i pugni sul tavolo, fieri e fuoritempo.

Avendo il vizio di Facebook ho voluto postarlo subito e mi sono messo a spremermi le meningi per trovare una battuta acuta e ficcante. Non me n’è venuta nessuna.
Ho passato minuti a pensare. Che spreco di tempo.
Ho avuto anche paura perché, al di là della bassa qualità del video, delle note, della voce cantante, delle mossette dei partecipanti, percepivo un odore di vittoria imminente.
Il famoso profumo di vittoria. Immagino.

I simpatizzanti del M5s tra gli altri modi di dire più diffusi, usano lo slogan “Vinciamo noi”. Credo che ci sia un punto esclamativo al termine dell’enunciato. “Vinciamo noi!”. 
In quel momento, vedendo il video, ho pensato che sì, era vero. Avrebbero vinto loro, qualsiasi cosa questo significasse.
Ho sbagliato il verbo, non avrebbero, avevano vinto loro. Avevano vinto perché erano perfettamente assolutamente contemporanei, fatti di una pasta e dotati di un gusto che mi risulta incomprensibile e forse per questo tanto mi disturba. 
Provai sensazioni simili nel 1994, quando Silvio Berlusconi vinse le elezioni ed io vidi, per la prima volta, i suoi sostenitori in Tv, persone tanto diverse da quelle che avevo in uso di frequentare. Persone con modalità di pensiero e gusti, che non riuscivo a comprendere e che, di conseguenza, disprezzavo.
Ho disprezzato, allo stesso modo, ognuna di quelle belle facce di persone di buona volontà che sono apparse nel video. Tutti quanti, anche i bambini. Ho detestato le capigliature, le basette e le barbe ricamate, gli aspetti curati, quelli trasandati, tutto quanto. Anche gli arredamenti sullo sfondo e le luci giallastre.
Ed è stato allora che sono diventato il Landucci. Mi sono sentito vecchio, in un mondo che genera atteggiamenti e modi che non capisco e che disprezzo.
Ho sentito le pietre future volarmi a pochi centimetri dalla testa. Quelle pietre erano gusti e modi che non comprenderò mai.
Il futuro prospettatomi dai movimenti, dalle espressioni delle persone presenti in quel video, mi faceva paura. Li ho immaginati al potere.
Ho preso la bicicletta allora e ho cominciato a pedalare per andare da un’altra parte. Una zona sicura.
Ho avuto l’impressione di sentire delle voci: Il Landucci! Dagli al Landucci!.
Io sono il Landucci. 

Così imparo.
(Gianni Pacinotti)

lunedì 28 aprile 2014

Dora


Anche senza la scusa della mostra il palazzo Fortuny a Venezia va visitato. È una specie di antro delle meraviglie artistiche che lascia stupefatti. Mi son rimasti impressi i lampadari, un modellino (modellone?) della villa Pisani a Strà (chiamata così in onore del doge Alvise Pisani) e molti quadri che non ho capito se sono del padre o del figlio Fortuny.



E poi ovviamente ci sono le mostre (più d'una). La più bella, per me che amo la fotografia, sicuramente quella su Dora Maar. Qui posto tre scansioni, tutte tratte dal catalogo della mostra. La prima, la più attuale, vale per i giorni nostri così come valeva 80 anni fa. Quella di Éluard l'ho accompagnata ai versi finali di Poésie ininterrompue scelta dal libro omonimo nella mia biblioteca contenente alcune poesie di E. nella traduzione di Franco Fortini.

Primavera infine è l'alba
E la bocca e l'alba
E gli occhi immortali
Han la forza di tutto

Noi due tu tutta ignuda
Io così come ho vissuto
Tu la sorgente del sangue
Ed io le mani aperte
Come occhi

Noi due vivi solo per essere fedeli
Alla vita



mercoledì 16 aprile 2014

Ipotesi Per Una Maria

Ascoltata sabato scorso.




E io che ancora mi innamoro come uno scemo
perché l’innamorarsi è uno specifico dell’uomo
spudorato mi accosto all’incerto dei tuoi richiami
sono io che deliro e tu che ami

Non so dove ora tu sia giunta
cara indimenticabile Maria
che all’inizio degli anni settanta
conoscesti la rabbia e l’ironia

Avevi il dono assi inconsueto
di ridere persino del tuo mito
e l’intuizione di una strana fede
per cui una cosa è vera soltanto
quando non ci si crede

Perché per credere davvero
bisogna spesso andarsene lontano
e ridere di noi
come da un aereoplano

Se tu fossi davvero esistita
cara indimenticabile Maria
fin da allora potevo imparare
a congiungere il vero e la bugia

E nelle notti massacranti
riempite di parole intelligenti
e nell’angoscia della vita
ho in mente ancora l’eco
della tua risata

Perché per vivere davvero
bisogna spesso andarsene lontano
e ridere di noi
come da un aereoplano

Forse sei solo un’ipotesi di donna
forse sono esagerati i sentimenti
e i mille spunti che mi dai
se è vero che si tratta
di una Maria che non conobbi mai

Ma so che a me piace pensarti
cara indimenticabile Maria
come fossi davvero esistita
col tuo gusto di amare e andare via
Perché persino nell’amore
nell’eccellenza del soffrire
nella violenza di una litigata
eri così coinvolta e così distaccata

Perché per credere all’amore davvero
bisogna spesso andarsene lontano
e ridere di noi
come da un aereoplano

E che la logica assurda del tempo
questo tempo che tutto porta via
riesca almeno salvare il tuo nome
Maria
(Giorgio Gaber, Sandro Luporini)

martedì 15 aprile 2014

Heroes



I, I will be king
And you, you will be queen
Though nothing will drive them away
We can beat them, just for one day
We can be Heroes, just for one day

And you, you can be mean
And I, I'll drink all the time
'Cause we're lovers, and that is a fact
Yes we're lovers, and that is that

Though nothing, will keep us together
We could steal time,
just for one day
We can be Heroes, for ever and ever
What d'you say?

I, I wish you could swim
Like the dolphins, like dolphins can swim
Though nothing,
nothing will keep us together
We can beat them, for ever and ever
Oh we can be Heroes,
just for one day

I, I will be king
And you, you will be queen
Though nothing will drive them away
We can be Heroes, just for one day
We can be us, just for one day

I, I can remember (I remember)
Standing, by the wall (by the wall)
And the guns shot above our heads
(over our heads)
And we kissed,
as though nothing could fall
(nothing could fall)
And the shame was on the other side
Oh we can beat them, for ever and ever
Then we could be Heroes,
just for one day

We can be Heroes
We can be Heroes
We can be Heroes
Just for one day
We can be Heroes

We're nothing, and nothing will help us
Maybe we're lying,
then you better not stay
But we could be safer,
just for one day

Oh-oh-oh-ohh, oh-oh-oh-ohh,
just for one day
(David Bowie, 1977)

lunedì 14 aprile 2014

Valentina

Sabato scorso a Capannori l'ho ascoltata cantare le canzoni scritte dal padre e cantate dal Signor G. Ha una voce stupenda, ancora migliore di quando l'ascoltai per la prima volta a Torre del Lago il fine agosto dell'anno scorso.

domenica 6 aprile 2014

Ubu Roi



Anche questa volta il Fabbricone mi ha regalato una meraviglia. L'ha fatto più di trent'anni fa quando un mio amico mi portò ad assistere al primo spettacolo teatrale in assoluto della mia vita. Allora era En attandant Godot di Samuel Beckett. E ricordo ancora come fosse oggi la scenografia di allora con l'albero spoglio sulla scena. E oggi, a concludere un lungo arco, un altro spettacolo dell'assurdo con Ubo Roi di Alfred Jarry messo in scenda da Roberto Latini. Devo confessare che ero un po' parvenu e l'inizio dello spettacolo con i 7 pescatori che parlano uno strano grammelot mi ha lasciato un po' interdetto. Poi invece, via via che le scene si susseguivano e un intreccio di storia cominciava ad uscire, sono rimasto sempre più affascinato e piacevolmente sorpreso. Il regista è riuscito a rendere fruibile e più che appetibile un'opera originariamente forse un po' ostica. E c'è riuscito veramente alla grande. E poi la scarna scenografia era veramente accativante e le poche luci e i giochi di scena (ricordo con estremo piacere un enorme tappeto di seta rosso che copriva l'intero palcoscenico e che era mosso come un mare in tempesta) erano favolosi. L'impressione di tutto lo spettacolo è stata come quella di un sogno colorato con passaggi non immediatamente razionali e comprensibili da una scena alla successiva. Sì! Sembrava proprio un sogno. E io di sogni sono un grossissimo intenditore e conoscitore (una volta mi divertivo a raccontarli agli amici più cari).

Post-scriptum. Ho realizzato solo uscito dallo spettacolo che Ubu è il premio annuale di teatro in Italia. Il nome deriva proprio dalla piece Ubu Roi che ho visto. E adeso capisco anche il perché.

Una rete a strascico di stelle





A lasciarci dietro la città
per un week-end di libertà
non eravamo solo noi
Ma il ron-ron ipnotico che fa
il mio motore quando va
Forse il sogno d’esser soli al mondo
col crepuscolo per sfondo ci portò
Marco accese un’altra sigaretta
poi il ta-klunk di una cassetta
e quel flauto incominciò
Anna disse in fondo chi lo sa
guardate quelle case là
Forse siamo noi forse son loro
a spostarsi non è chiaro
e s’incantò

Il tuffo del sole affogò le parole
laggiù giù con sé
Il viso di Sandra
si colorò d’ambra
noi in silenzio si guardò
Poi la prima stella che spuntò
verso la sera ci attirò
Ci attirò nella sera

La stradina che deviava ad est
oltre l’asfalto il fumo e il resto
ci raccolse e evaporò
Viaggiavamo sulla giusta via
quella che ognuno pensa è mia
Poi una rete a strascico di stelle
gli eucalipti della valle imprigionò
Resta la mia mano sul volante
il cuore batte poco più distante
è tutto quel che so di me e di quel che ho

La casina bianca si raggiunge
che è già notte da un bel po’
Canta un grillo la liberazione
ma una luce sul balcone dice no
La casa viveva
qualcuno attendeva
qualcuno ma chi?

Pensieri già spenti rinascono attenti
ritorna l’ombra di un perché
Spengo il mio motore
ed anche l’eco di un timore
ora si è spento
Apro la porta ed entro

Sono passati i giorni, sono passati i giorni,
Sono passati i giorni, sono passati i giorni.

Questa è una canzone mai finita
cominciata e poi perduta chissà quanto tempo fa
Restituita da una carta ormai ingiallita
e la grafia è la mia ma ad un’altra età
Forse al tempo in cui la mia poesia
non tradiva una mania d’eternità
Il Tempo che è un prestigiatore d’arte
ha continuato il gioco con le sue tre carte
Prima Adesso e Poi
Ha cristallizzato la sua scia
sui vetri e sulle porte a casa mia
non è così da voi?
E’ così da me da me che scrivo
sempre meno bravo a dire quel che ho
A dire d’un male che amaro risale dal fondo di me

Rileggendo quella strana mia canzone
ormai lontana che non mi ricordavo più
Che ci fosse in quella casa io non ricordo
ma una cosa so
sono passati i giorni
Son passati i giorni in cui una gita
un tramonto e una nottata in poesia mi torni
Ma in quei trenta versi io ve lo giuro
non so come ero sicuro
Che avrei dato un nome a ogni pensiero
e davvero non ci avrei pensato più
(Sono passati i giorni, Tito Schipa Jr, 1974)