martedì 26 gennaio 2010

La Shoah non è solo un cumulo di cadaveri

Ieri mi sono svegliato con il raffreddore e la febbre. Ho preso una tachipirina. Non sono andato a lavorare (ferie, non malattia!). E mi sono dedicato a me stesso.

A pranzo ho incontrato una signora che non vedevo da mesi e ho pranzato con lei (al freddo e al gelo).

Nel pomeriggio sono andato a riposarmi un po' a casa.

La sera ho partecipato alla presentazione del libro qui sotto nella Sala delle Baleari del palazzo Gambacorti di Pisa. La sala è stupenda.

Il libro non l'ho ancora letto, ma la presentazione è stata ottima. Oltre all'autore erano presenti i due protagonisti, Saul e sua moglie, venuti apposta da Israele, per raccontare la loro storia.

È la storia di una famiglia normale (originariamente il libro di doveva intitolare proprio "Una famiglia normale") la cui vità è stata, come quella di molte altre famiglie normali, sconvolta dalla Shoah. È stato molto commovente. E Saul (con i suoi 80 brillanti anni che compirà tra un paio di giorni a Firenze circondato dai suoi figli) molte volte si è commosso e ha pianto.

Ma quello che mi ha impressionato di più non è tanto la storia purtroppo triste della Shoah con le sue montagne di morti, quanto la famiglia. Una famiglia normale. Ma che tanto normale non è. Saul ha ripetuto più volte che è orgoglioso della sua famiglia, di sua moglie, dei suoi 4 figli, dei 10 nipoti. È giustamente orgoglioso dei 58 anni della sua famiglia.
E io pensavo alle famiglie di oggi, che si sfasciano dopo pochi anni (compresa la mia, sono separato). È la famiglia normale, ma nello stesso tempo speciale, il vero protagonista di questo libro.

Perché, come ha detto ieri Saul, la Shoah non è solo un cumulo di cadaveri.

Dopo la presentazione avrei dovuto prendere l'auto e correre a Sesto Fiorentino a presenziare al vernissage dell'installazione della mia amica palindroma, sempre in occasione delal Giornata della memoria. Ma la febbre è aumentata e me ne sono tornato a casa a prendere un'altra tachipirina.

«Babbo, cosa vuol dire una famiglia normale?»
Non è che te l’aspetti una domanda come questa, nel bel mezzo di una domenica pomeriggio abbandonata all’indolenza. Non te l’aspetti, se da qualche ora ti sei completamente abbandonato alle pagine di un libro, tanto da illuderti che il mondo se ne sia rimasto fuori, per una volta muto e arrendevole. Non te lo aspetti, soprattutto, se una domanda come questa te la fa il tuo bambino, sette anni appena, il tuo bambino che fino a questo momento se n’è rimasto buono buono a rimpinzarsi di cartoni animati alla televisione.
Per questo ho alzato la testa con studiata lentezza e ho optato per un silenzio prudente, a suo modo perplesso. L’ho guardato, il mio bambino, senza dare voce ai miei punti interrogativi.
E questa, come gli è venuta in mente? Che ne può o vuole sapere, lui, di normalità e anormalità? E perché poi la famiglia?
E ancora: di cosa si preoccupa? Di cosa devo preoccuparmi io?

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