sabato 6 febbraio 2010

Inferno - L'occhio testimone

Dopo aver passato la giornata di ieri in autostrada (10 ore e mezza di cui due e mezza fermo nello stesso imprecisato punto tra Calenzano e Barberino del Mugello) oggi è andata meglio e nel pomeriggio ho visitato una mostra fotografica a Seravezza.



Esponeva James Nachtwey e il titolo, non casuale, era "Inferno - L'occhio testimone". L'autore è uno dei più bravi fotografi di guerra che esista. Gli scatti proposti (in 10 ricche sale del Palazzo Mediceo di Seravezza) non lasciano tregua al pensiero che cerca un plausibile motivo per tutto ciò che gli occhi riportano. Non è una mostra facile. Non è una mostra leggera. È però una mostra molto bella, da vivere con la testa piuttosto che con gli occhi.




Nel 1985, subito prima di diventare un membro della famosa agenzia fotografica Magnum, il 36-enne James Nachtwey scrisse questa sua filosofia circa la rilevanza del suo lavoro come fotografo di guerra (il video è tratto da un documentario a lui dedicato).


Why photograph war?

There has always been war. War is raging throughout the world at the present moment. And there is little reason to believe that war will cease to exist in the future. As man has become increasingly civilized, his means of destroying his fellow man have become ever more efficient, cruel and devastating.

Is it possible to put an end to a form of human behavior which has existed throughout history by means of photography? The proportions of that notion seem ridiculously out of balance. Yet, that very idea has motivated me.

For me, the strength of photography lies in its ability to evoke a sense of humanity. If war is an attempt to negate humanity, then photography can be perceived as the opposite of war and if it is used well it can be a powerful ingredient in the antidote to war.

In a way, if an individual assumes the risk of placing himself in the middle of a war in order to communicate to the rest of the world what is happening, he is trying to negotiate for peace. Perhaps that is the reason why those in charge of perpetuating a war do not like to have photographers around.

It has occurred to me that if everyone could be there just once to see for themselves what white phosphorous does to the face of a child or what unspeakable pain is caused by the impact of a single bullet or how a jagged piece of shrapnel can rip someone's leg off - if everyone could be there to see for themselves the fear and the grief, just one time, then they would understand that nothing is worth letting things get to the point where that happens to even one person, let alone thousands.

But everyone cannot be there, and that is why photographers go there - to show them, to reach out and grab them and make them stop what they are doing and pay attention to what is going on - to create pictures powerful enough to overcome the diluting effects of the mass media and shake people out of their indifference - to protest and by the strength of that protest to make others protest.

The worst thing is to feel that as a photographer I am benefiting from someone else's tragedy. This idea haunts me. It is something I have to reckon with every day because I know that if I ever allow genuine compassion to be overtaken by personal ambition I will have sold my soul. The stakes are simply too high for me to believe otherwise.


La mostra resta aperta sino al 5 aprile (Lunedì di Pasqua) e, secondo me, vale la pena spendere un'ora della propria vita (e 5 € del proprio capitale) per visitarla. Se poi qualcuno volesse regalarmi il bellissimo e ricco catalogo gliene sarei proprio grato (costa solo 150 €).

Durante il ritorno verso Pisa mi sono goduto (gratis) uno stupendo cielo fiammeggiante sopra la pineta di San Rossore: un tramonto da ricordare.


8 febbraio. Aggiungo la traduzione in italiano del credo di
Nachtwey.
Perché fotografare la guerra?

Nel 1985, poco prima di diventare membro della famosa Agenzia fotografica Magnum, l'allora 36enne James Nachtwey scrisse questo testo, un credo sul valore del suo lavoro di fotografo di guerra.

C'è sempre stata la guerra. La guerra infuria in tutto il mondo ora. E non c'è motivo di credere che la guerra cesserà di esistere nel futuro. Dato che l'uomo è diventato sempre più civilizzato, i suoi mezzi di distruzione del suo simile sono diventati ancora più efficienti, crudeli e devastanti.

É possibile porre fine a una forma di comportamento umano che è esistita in tutta la storia con la fotografia? Le proporzioni di questa affermazione sembrano ridicolmente squilibrate. Tuttavia, proprio quell'idea mi ha motivato.

Per me, la forza della fotografia sta nella sua capacità di evocare un senso di umanità. Se la guerra è un tentativo di negare l'umanità, allora la fotografia può essere concepita come l'opposto della guerra e se usata bene può essere un ingrediente potente nell'antidoto alla guerra.

In un certo senso, se una persona assume il rischio di mettersi nel mezzo di una guerra per comunicare al resto del mondo ciò che accade, egli sta cercando di negoziare in favore della pace. Forse è la ragione per la quale quelli che sono responsabili di perpetuare la guerra non amano avere fotografi attorno.

Mi è capitato che se tutti potessero essere proprio là una volta per vedere con i loro occhi che cosa il fosforo bianco fa alla faccia di un bambino o che indicibile sofferenza è causata dall'impatto con una sola pallottola o come un frammento seghettato di granata può tagliare la gamba di qualcuno - se tutti potessero essere là per vedere con i propri occhi la paura e il dolore, solo una volta, allora capirebbero che non vale affatto la pena di lasciare che le cose arrivino al punto in cui ciò accada a una sola persona, per non parlare di migliaia.

Ma tutti non possono essere là, ed ecco perché i fotografi sono là - per fare loro vedere, per raggiungerli, afferrarli e fare loro smettere quello che stanno facendo e dedicare attenzione a ciò che succede - per dare vita a fotografie abbastanza potenti da sconfiggere gli effetti annacquanti dei mezzi di comunicazione di massa e scuotere le persone al di là della loro indifferenza - per protestare e con la forza di quella protesta fare sì che altri protestino.

La peggiore cosa è di sentire che come fotografo posso trarre beneficio dalla tragedia di qualcun altro. Questa idea mi tormenta. É qualcosa con cui debbo fare i conti ogni giorno, perché so che se mai permettessi alla mia sincera compassione di essere sopraffatta dall'ambizione personale avrei venduto la mia anima. La posta è semplicemente troppo alta per me per pensare in un altro modo.

Cerco di diventare il più possibile responsabile di fronte al soggetto. L'atto di essere uno che viene da fuori e che punta una macchina fotografica può essere una violazione dell'umanità. Il solo modo in cui posso giustificare il mio ruolo e di avere rispetto per la situazione difficile dell'altra persona. La misura in cui io faccio ciò è la misura in cui divento accettato dall'altro, e la misura in cui posso accettare me stesso.

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