lunedì 21 marzo 2011

Sono nata il 21 a primavera





Il 21 marzo, per celebrare la Giornata mondiale della Poesia, è stata inaugurata dal sindaco di Milano, Letizia Moratti, la «Casa Merini. Atelier della parola giovane» uno spazio dedicato alla poetessa scomparsa nel 2009. La casa- museo, che si sviluppa su due piani nell’Ex Tabaccheria comunale, comprende un percorso sull’opera di Alda Merini e la riproduzione della sua stanza da letto, con oggetti provenienti dal suo storico appartamento di Ripa di Porta Ticinese. Chi ha messo piede in quella casa, fotografata, tra gli altri, da Giuliano Grittini, sa che – proprio come lo studio di Morandi – quello spazio, con i numeri di telefono scritti ovunque sui muri, le cicche di sigaretta sul pavimento, i libri, le carte, la povertà dignitosa e il disordine – non era solo l’immagine viva della vita condotta dalla poetessa,ma anche quella della sua poesia. Una poesia fatta di accumulo, di ripetizione, di accostamenti semplici quanto sorprendenti, di un lirismo lacerato quanto una piastrella smossa e sbeccata, una poesia dove anche la polvere aveva un peso.
«Ogni uomo – scriveva Merini in La pazza della porta accanto – ha le piccole polveri del passato che deve sentirsi addosso, e che non deve perdere. Sono il suo cammino. Anche in manicomio dicevano: ‘Lavateli’. No, io voglio sentirmi sporca, sporcata anche dalla fama, d’altronde. ‘Le lavo le maglie così è pulita’ - mi dicono. Pulita,ma infelice». Ricordando gli anni trascorsi in ospedale psichiatrico, la Merini rivendicava la propria sporcizia, le ditate che il passato impone su di noi, soprattutto quando è fatto di emarginazione. La poesia, insomma, non è una cosa che si possa ordinare, soprattutto quando testimonia il depositarsi, il decantarsi delle schegge dell’umano. Vedere le immagini della sua stanza ora reinventata e riorganizzata sul Naviglio Grande, dà la stessa infelicità di immaginare la poetessa pulita e inebetita dai farmaci nella sua asettica stanza del Paolo Pini.
Pavimento pulito e travi a vista; la macchina da scrivere perennemente senza nastro esposta in bella mostra insieme ad altri oggetti allineati sulla scrivania; qualche vestito gettato su quello che era il letto-ufficio-mondo della poetessa. Pareti bianche, faretti anonimi, infissi perfetti: tutto troppo perfetto. Tutto pulito. Nella mostra che si snoda al piano inferiore sono numerose le immagini che mostrano la Merini nella sua casa originale, ma nonostante questo l’idea di trasformare la tana della poetessa dei navigli e dei clochards in quello che sembra il monolocale di una studentessa del Politecnico è un’idea volgare. Volgare quanto il conformismo e la cultura dell’immagine che vi sta dietro, quella che pretende di uniformare e addomesticare il diverso, il controverso, ai propri parametri, anche estetici.
A questa cultura Alda Merini non appartiene, e se anche la sua opera ha strizzato l’occhio a televisione e mercato, e non è sempre stata in grado di mantenersi all’altezza di volumi importanti come La terra santa, la sua poesia testimonia l’esistenza di una alterità pulviscolare che rifiuta di essere imprigionata in un modello d’ordine rassicurante. «Non so se esistano le ali della farfalla – scriveva –ma è la polvere che le fa volare».

(Gian Maria Annovi)

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