Tutte le novità che riguardano la rete, i nuovi programmi, i nuovi siti-web, implicano una attenzione proporzionale alla velocità travolgente nella quale si succedono le une alle altre: basti pensare che nel 1998 non c’era Google, nel 2004 non c’era Facebook, nel 2006 non c’era Twitter. A questo proposito sono di speciale interesse le tesi espresse da Siva Vaidhyanathan nel suo libro più recente, The Googlization of Everything (La googlizzazione di ogni cosa), in cui Google viene attaccato perché, dietro la sua immagine di «onnisciente, onnipotente e onnipresente» nonché apparentemente disinteressato, fa soldi a palate, grazie a forme occulte di pubblicità e vendite altrettanto occulte di informazioni sulle preferenze e i gusti dei suoi utenti googlizzati.
I protagonisti del processo
Questo il contesto in cui cadono le significative reazioni di un grande studioso come Robert Darnton alla recente sentenza (23 marzo) del giudice Denny Chin, che ha dichiarato nullo l’accordo a suo tempo raggiunto, dopo lunghi negoziati, fra Google e la società americana degli autori (Authors Guild) e quella degli editori (American Publishers), per la cessione a Google dei diritti di riproduzione elettronica dei loro libri. La posta in gioco riguarda il futuro del libro, della scrittura e della lettura e investe la domanda posta, per esempio, da Kevin Kelly in un articolo del 2006 sul «New York Times Magazine»: «Cosa succederà quando tutti i libri del mondo diventeranno una singola fabbrica liquida di parole e idee interconnesse?». Come molti sanno, per averne usato i servizi, Google ha cominciato già da qualche anno a digitalizzare i libri di molte biblioteche e a mettere a disposizione dei navigatori della rete alcuni brani estratti da quei libri, non naturalmente l’intero testo. Nel 2005 autori e editori mossero un’azione legale contro Google, per violazione del diritto d’autore. Nel 2008 fu raggiunto un primo accordo, seguito nel 2009, a causa di molte proteste, da un nuovo accordo emendato. È quest’ultimo testo a essere stato respinto dal giudice Chin dopo una lunga battaglia legale (le parcelle degli avvocati delle due parti sono arrivate alla considerevole somma di 45 milioni di dollari). Il giudice Chin, nato a Hong Kong, emigrato negli Stati Uniti nel 1956 all’età di due anni, nominato dal presidente Obama giudice della corte d’appello federale, unico americano di origine asiatica a ricoprire una così alta posizione, ha pazientemente ascoltato le parti e alla fine ha dichiarato nullo l’accordo, con una decisione che, naturalmente, non è per ora definitiva. Lo storico Robert Darnton, notissimo anche da noi per i suoi studi sull’illuminismo francese e sulla storia del libro e della lettura, ha insegnato per anni a Princeton, ora è direttore della biblioteca Widener di Harvard ed è l’ideatore e il responsabile dal 1999 del Gutenberg- e Program, che pubblica in rete opere accademiche di alta qualità, cercando così di aiutare le case editrici universitarie a uscire dalla crisi finanziaria che le tormenta. Da anni Darnton segue con attenzione gli sviluppi della rete e le conseguenze che possono avere sul mercato librario. Nell’autunno del 2010, in occasione di un convegno a Harvard, ha pronunciato un discorso (pubblicato sulla «New York Review of Books» il 28 ottobre) in cui ha lanciato la proposta di creare una «Biblioteca digitale nazionale americana » (Dpla), con lo scopo di «rendere liberamente accessibile il patrimonio culturale di questo paese a tutti i suoi cittadini». Nel lanciare la sua proposta Darnton si è ispirato apertamente all’ideale illuministico della «repubblica delle lettere», all’esempio dell’Encyclopédie e di Voltaire («Do ilmio consenso a che qualsiasi libraio ripubblichi le mie sciocchezze, siano esse vere o false, a suo rischio, pericolo e profitto »), nonché ai principi sostenuti dai padri fondatori della repubblica americana (Thomas Jefferson: «Il sapere è proprietà comune di tutta l’umanità»). Il suo progetto ha molteplici obiettivi: quello di creare una coalizione di biblioteche disposte amettere in comune i loro depositi librari, quello di chiedere a un’associazione di fondazioni, università e altre organizzazioni nonprofit di fornire i mezzi finanziari necessari, quello di costituire un organismo centrale che coordini il progetto, stabilisca criteri, norme e formati comuni. Darnton ha in mente i numerosi progetti simili che sono in discussione in molti paesi, sia sviluppati sia emergenti. (In Italia mi pare che siamo come al solito al rimorchio - a parte le coraggiose prese di posizione degli autori Wu Ming).
I vantaggi del progetto
L’atteggiamento di Darnton verso il progetto di digitalizzazione di Google non è stato mai ostile, anche se ha sempre avvertito come rischioso, per un paese come l’America, dove pure abbondano le imprese monopolistiche o i duopoli come quello Microsoft- Apple, affidare un’operazione così importante a una società privata. La sua reazione alla sentenza del giudice Chin è in parte di soddisfazione in parte di delusione. Il progetto Google Book Search, secondo lui, offre indubbi vantaggi: libero accesso almeno sui terminali di una biblioteca pubblica, accorgimenti speciali per i non-vedenti e accesso agli archivi di Google per ricerche di particolare impegno e ampiezza. Lo svantaggio principale sta nel suo impianto commerciale. Google ha chiesto alle biblioteche di fornire i loro libri gratuitamente (non del tutto, per la verità: Google si è fatto carico della digitalizzazionema le biblioteche hanno dovuto affrontare i costi delle transazioni: Harvard, per esempio, ha pagato quasi due milioni di dollari per rendere disponibili 850.000 volumi di dominio pubblico). Le biblioteche, inoltre, dovrebbero successivamente ottenere l’accesso a quegli ebook sottoscrivendo un abbonamento, il cui ammontare, secondo l’ultimo accordo, dovrebbe essere fissato da una commissione apposita - il Books Rights Registry - in cui verrebbero rappresentati anche editori e autori, chiaramente interessati a fissare un prezzo alto. L’accordo prevede una spartizione degli utili del 37 per cento a Google e del 63 per cento a autori e editori. Nella stesura di questi accordi, fa notare Darnton: «nessuno rappresenta l’interesse pubblico» e «non è prevista nessuna autorità pubblica chiamata a monitorare delle operazioni che con tutta probabilità sono destinate a determinare il destino del libro per molti anni a venire nel futuro digitale».
Quando la lingua non è l’inglese
Il giudice Chin non ha affrontato, nella sua sentenza, gli aspetti commerciali dell’accordo e si è invece concentrato sulla minaccia in esso presente di porre dei freni molto pesanti alla concorrenza. Inoltre, ha basato il suo giudizio negativo, fra gli altri, su due problemi: innanzi tutto quello dei libri «orfani», quelli per i quali non è stato possibile identificare i proprietari del copyright (circa 5milioni, in gran parte pubblicati fra il 1923 e il 1964). Il giudice non ha ritenuto sufficiente una norma dell’accordo che prevede un possibile rimborso per chi, autore o editore, si facesse avanti, senza possibilità comunque di risarcimento legale. Il secondo problema riguarda la scarsa rappresentatività della Società degli autori (8000 membri, quando gli autori di libri in America superano probabilmente le 100.000 unità, ivi compresi autori di studi accademici, i quali non hanno di solito immediati interessi commerciali e semmai tendono a vedere con favore che un loro libro circoli anche in forma digitale). A questo punto del suo ragionamento Darnton si domanda: visti imolti difetti dell’accordo segnalati dal giudice, dobbiamo augurarci che esso non venga ulteriormente corretto e venga invece affossato? E risponde: «Ciò comporterebbe la rinuncia amolti aspetti positivi del progetto. Per preservare i suoi vantaggi e evitare i suoi difetti vale la proposta che io e altri abbiamo avanzato di creare una Digital Public Library of America». A sostegno di questa proposta Darnton porta l’esempio del lavoro avviato, per creare una biblioteca nazionale digitale, in Norvegia e in Olanda. Sono iniziative che «hanno l’appoggio dello Stato e si propongono di digitalizzare libri protetti dal copyright, compresi quelli correntemente disponibili, sulla base di accordi collettivi - non gli strumenti legalistici pensati da Google e dai suoi associati,ma accordi volontari che concilino gli interessi di autori e editori proprietari dei diritti con quelli dei lettori che vogliono avere accesso a tutto ciò che è pubblicato nella lingua nazionale». Darnton sa bene, tuttavia, che il numero di libri pubblicati in norvegese o in olandese non può essere paragonato a quelli in inglese e che la soluzione per questi ultimi va concordata con molti paesi, dunque il risultato è che rimane assai complicata.
Un unico database europeo
Forse un modello migliore può essere offerto, per un paese grande come gli Stati Uniti, dal progetto di digitalizzazione pan-europea che è attualmente in discussione presso gli organi comunitari: si chiama Europeana e ha sede all’Aja. Anziché creare una sua propria enorme collezione di libri elettronici, Europeana prevede di funzionare come aggregazione di aggregatori: le singole biblioteche dovrebbero digitalizzare il materiale librario in loro possesso, una serie di centri nazionali o regionali dovrebbero integrarle in un database centrale, quindi Europeana dovrebbe trasformare quei database in un unico database europeo. I singoli utenti, alla ricerca di un libro, manderebbero la richiesta a Europeana e automaticamente, senza passaggi ulteriori, verrebbero rinviati alla biblioteca che possiede il libro richiesto.
I protagonisti del processo
Questo il contesto in cui cadono le significative reazioni di un grande studioso come Robert Darnton alla recente sentenza (23 marzo) del giudice Denny Chin, che ha dichiarato nullo l’accordo a suo tempo raggiunto, dopo lunghi negoziati, fra Google e la società americana degli autori (Authors Guild) e quella degli editori (American Publishers), per la cessione a Google dei diritti di riproduzione elettronica dei loro libri. La posta in gioco riguarda il futuro del libro, della scrittura e della lettura e investe la domanda posta, per esempio, da Kevin Kelly in un articolo del 2006 sul «New York Times Magazine»: «Cosa succederà quando tutti i libri del mondo diventeranno una singola fabbrica liquida di parole e idee interconnesse?». Come molti sanno, per averne usato i servizi, Google ha cominciato già da qualche anno a digitalizzare i libri di molte biblioteche e a mettere a disposizione dei navigatori della rete alcuni brani estratti da quei libri, non naturalmente l’intero testo. Nel 2005 autori e editori mossero un’azione legale contro Google, per violazione del diritto d’autore. Nel 2008 fu raggiunto un primo accordo, seguito nel 2009, a causa di molte proteste, da un nuovo accordo emendato. È quest’ultimo testo a essere stato respinto dal giudice Chin dopo una lunga battaglia legale (le parcelle degli avvocati delle due parti sono arrivate alla considerevole somma di 45 milioni di dollari). Il giudice Chin, nato a Hong Kong, emigrato negli Stati Uniti nel 1956 all’età di due anni, nominato dal presidente Obama giudice della corte d’appello federale, unico americano di origine asiatica a ricoprire una così alta posizione, ha pazientemente ascoltato le parti e alla fine ha dichiarato nullo l’accordo, con una decisione che, naturalmente, non è per ora definitiva. Lo storico Robert Darnton, notissimo anche da noi per i suoi studi sull’illuminismo francese e sulla storia del libro e della lettura, ha insegnato per anni a Princeton, ora è direttore della biblioteca Widener di Harvard ed è l’ideatore e il responsabile dal 1999 del Gutenberg- e Program, che pubblica in rete opere accademiche di alta qualità, cercando così di aiutare le case editrici universitarie a uscire dalla crisi finanziaria che le tormenta. Da anni Darnton segue con attenzione gli sviluppi della rete e le conseguenze che possono avere sul mercato librario. Nell’autunno del 2010, in occasione di un convegno a Harvard, ha pronunciato un discorso (pubblicato sulla «New York Review of Books» il 28 ottobre) in cui ha lanciato la proposta di creare una «Biblioteca digitale nazionale americana » (Dpla), con lo scopo di «rendere liberamente accessibile il patrimonio culturale di questo paese a tutti i suoi cittadini». Nel lanciare la sua proposta Darnton si è ispirato apertamente all’ideale illuministico della «repubblica delle lettere», all’esempio dell’Encyclopédie e di Voltaire («Do ilmio consenso a che qualsiasi libraio ripubblichi le mie sciocchezze, siano esse vere o false, a suo rischio, pericolo e profitto »), nonché ai principi sostenuti dai padri fondatori della repubblica americana (Thomas Jefferson: «Il sapere è proprietà comune di tutta l’umanità»). Il suo progetto ha molteplici obiettivi: quello di creare una coalizione di biblioteche disposte amettere in comune i loro depositi librari, quello di chiedere a un’associazione di fondazioni, università e altre organizzazioni nonprofit di fornire i mezzi finanziari necessari, quello di costituire un organismo centrale che coordini il progetto, stabilisca criteri, norme e formati comuni. Darnton ha in mente i numerosi progetti simili che sono in discussione in molti paesi, sia sviluppati sia emergenti. (In Italia mi pare che siamo come al solito al rimorchio - a parte le coraggiose prese di posizione degli autori Wu Ming).
I vantaggi del progetto
L’atteggiamento di Darnton verso il progetto di digitalizzazione di Google non è stato mai ostile, anche se ha sempre avvertito come rischioso, per un paese come l’America, dove pure abbondano le imprese monopolistiche o i duopoli come quello Microsoft- Apple, affidare un’operazione così importante a una società privata. La sua reazione alla sentenza del giudice Chin è in parte di soddisfazione in parte di delusione. Il progetto Google Book Search, secondo lui, offre indubbi vantaggi: libero accesso almeno sui terminali di una biblioteca pubblica, accorgimenti speciali per i non-vedenti e accesso agli archivi di Google per ricerche di particolare impegno e ampiezza. Lo svantaggio principale sta nel suo impianto commerciale. Google ha chiesto alle biblioteche di fornire i loro libri gratuitamente (non del tutto, per la verità: Google si è fatto carico della digitalizzazionema le biblioteche hanno dovuto affrontare i costi delle transazioni: Harvard, per esempio, ha pagato quasi due milioni di dollari per rendere disponibili 850.000 volumi di dominio pubblico). Le biblioteche, inoltre, dovrebbero successivamente ottenere l’accesso a quegli ebook sottoscrivendo un abbonamento, il cui ammontare, secondo l’ultimo accordo, dovrebbe essere fissato da una commissione apposita - il Books Rights Registry - in cui verrebbero rappresentati anche editori e autori, chiaramente interessati a fissare un prezzo alto. L’accordo prevede una spartizione degli utili del 37 per cento a Google e del 63 per cento a autori e editori. Nella stesura di questi accordi, fa notare Darnton: «nessuno rappresenta l’interesse pubblico» e «non è prevista nessuna autorità pubblica chiamata a monitorare delle operazioni che con tutta probabilità sono destinate a determinare il destino del libro per molti anni a venire nel futuro digitale».
Quando la lingua non è l’inglese
Il giudice Chin non ha affrontato, nella sua sentenza, gli aspetti commerciali dell’accordo e si è invece concentrato sulla minaccia in esso presente di porre dei freni molto pesanti alla concorrenza. Inoltre, ha basato il suo giudizio negativo, fra gli altri, su due problemi: innanzi tutto quello dei libri «orfani», quelli per i quali non è stato possibile identificare i proprietari del copyright (circa 5milioni, in gran parte pubblicati fra il 1923 e il 1964). Il giudice non ha ritenuto sufficiente una norma dell’accordo che prevede un possibile rimborso per chi, autore o editore, si facesse avanti, senza possibilità comunque di risarcimento legale. Il secondo problema riguarda la scarsa rappresentatività della Società degli autori (8000 membri, quando gli autori di libri in America superano probabilmente le 100.000 unità, ivi compresi autori di studi accademici, i quali non hanno di solito immediati interessi commerciali e semmai tendono a vedere con favore che un loro libro circoli anche in forma digitale). A questo punto del suo ragionamento Darnton si domanda: visti imolti difetti dell’accordo segnalati dal giudice, dobbiamo augurarci che esso non venga ulteriormente corretto e venga invece affossato? E risponde: «Ciò comporterebbe la rinuncia amolti aspetti positivi del progetto. Per preservare i suoi vantaggi e evitare i suoi difetti vale la proposta che io e altri abbiamo avanzato di creare una Digital Public Library of America». A sostegno di questa proposta Darnton porta l’esempio del lavoro avviato, per creare una biblioteca nazionale digitale, in Norvegia e in Olanda. Sono iniziative che «hanno l’appoggio dello Stato e si propongono di digitalizzare libri protetti dal copyright, compresi quelli correntemente disponibili, sulla base di accordi collettivi - non gli strumenti legalistici pensati da Google e dai suoi associati,ma accordi volontari che concilino gli interessi di autori e editori proprietari dei diritti con quelli dei lettori che vogliono avere accesso a tutto ciò che è pubblicato nella lingua nazionale». Darnton sa bene, tuttavia, che il numero di libri pubblicati in norvegese o in olandese non può essere paragonato a quelli in inglese e che la soluzione per questi ultimi va concordata con molti paesi, dunque il risultato è che rimane assai complicata.
Un unico database europeo
Forse un modello migliore può essere offerto, per un paese grande come gli Stati Uniti, dal progetto di digitalizzazione pan-europea che è attualmente in discussione presso gli organi comunitari: si chiama Europeana e ha sede all’Aja. Anziché creare una sua propria enorme collezione di libri elettronici, Europeana prevede di funzionare come aggregazione di aggregatori: le singole biblioteche dovrebbero digitalizzare il materiale librario in loro possesso, una serie di centri nazionali o regionali dovrebbero integrarle in un database centrale, quindi Europeana dovrebbe trasformare quei database in un unico database europeo. I singoli utenti, alla ricerca di un libro, manderebbero la richiesta a Europeana e automaticamente, senza passaggi ulteriori, verrebbero rinviati alla biblioteca che possiede il libro richiesto.
(Remo Ceserani)
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