Se c’è una cosa davvero struggente, pur risultando d’interesse direi quasi scientifico nella sua sistematicità, in quelle che sembrano palesarsi come le nuove forme di pubblico dissenso, è il fenomeno crescente degli uomini torcia: chi, per intenderci, si dà fuoco in pubbliche rimostranze. La storia dell’umanità, anche prima dell’invenzione della stampa, o ancor prima di quella della scrittura (3.000 a.C.), avrà certamente fornito le “cronache” di simili accadimenti in una mole considerevole, ma all’ora presente quest’estremo gesto d’insostenibilità sembrerebbe aver assunto le connotazioni di una nuova vera e propria prassi rivoluzionaria, a guisa di unamoderna “class action” dalle fattezze pur tuttavia drammatiche.
Quello dell’uomo torcia è sì un gesto individuale ma che racchiude in sé la rabbia dei molti, e, di questi, in grado di suscitarne le vive reazioni. È come se il singolo, racchiudendo in sé il male dei molti, con quel disperato gesto, se ne liberasse in un baleno e nel nome di tutti, concedendo alla verità un repentino, seppur tragico e circoscritto, trionfo. Certo, chi compie un tale gesto non lo si può non considerare un vinto. Un vinto tuttavia solo per la violenza dell’epilogo, perché nel processo che a ciò lo ha condotto potrebbe non aver sbagliato quasi nulla. E l’auto-eliminarsi potrebbe essere risultato come l’inevitabile conseguenza di quel pensiero che, seppur in grado di esplorare territori assai nobili e profondi, spesso inarrivabili ai molti, non consente poi, da tale esplorazione, un’uscita indenne.
Solo negli ultimi mesi si sono avvicendati una sequela di episodi destinati a far breccia nell’agenda politica internazionale. È esplosa la “primavera araba” col giovane Mohamed Bouazizi che il 17 dicembre 2010 s’è dato fuoco dopo che due poliziotti gli avevano confiscato la merce che, seppur laureato, il ragazzo tunisino era costretto a vendere senza licenza per tirare avanti. Cosa simile è accaduta in Italia al ventisettenne Noureddine Adnane che, pur essendo stavolta in regola sia coi documenti che con la licenza, non viene risparmiato dalle quotidiane intimazioni dei vigili e il 10 febbraio si è dato fuoco a Palermo. Il 16 marzo un giovane monaco di 20 anni si è dato fuoco nel monastero di Kirti per protestare contro la repressione di Pechino ai danni del popolo tibetano e contro la cinesizzazione culturale della regione himalayana. In Francia il 26 aprile scorso un impiegato di 57 anni del gruppo telefonico francese Telecom-Orange si è dato fuoco davanti alla filiale della compagnia a Bordeaux (compagnia nella quale 58 dipendenti si sono tolti la vita tra il 2008 e il 2010).
Risulta chiaro come il fenomeno coinvolga persone tra loro assai lontane, proletari e borghesi, orientali e occidentali, di scarsa cultura o alquanto acculturati, eppure, sotto un altro punto di vista, persone tra loro vicinissime e contigue: uomini invisibili che d’un tratto fanno un gran luce. Agli inizi degli anni ’80 un giovane regista russo, già maestro del cinema internazionale, Andrej Tarkovskij, si trovava a Roma per girare una pellicola dal titolo eloquente, “Nostalghia”, scritta a quattro mani con Tonino Guerra, nella quale il noto attore Erland Josephson, nei panni di un matematico ritenuto folle, si dà fuoco sulla statua di Marco Aurelio al Campidoglio dopo aver denunciato le nefandezze della società e aver ammonito come, posta dinanzi ad un bivio, l’umanità avrebbe intrapreso la strada sbagliata. A fare da sfondo a tale scena, appeso lungo il colonnato dell’edificio michelangiolesco che cinge un lato della piazza, appariva uno striscione con su scritto: «Non siamomatti, siamo seri».
(Emiliano Di Silvestro)
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