Nella traduzione in francese e tedesco del suo ultimo libro «Se Venezia muore» Salvatore Settis ha cambiato la copertina. E ci ha messo una delle immagini del suo amico Berengo Gardin sulle grandi navi che passano a poche decine di metri dal palazzo Ducale. «Vediamo se il sindaco Brugnaro riuscirà a vietarne la vendita nelle librerie», ha scritto a un amico.
In tre modi muoiono le città.
Quando le distrugge un nemico spietato (come Cartagine, rasa al suolo da Roma nel 146 a.C.);
Quando un popolo straniero vi si insedia con la forza, scacciando gli autoctoni e i loro dèi (come Tenochtitlán, la capitale degli Aztechi che i conquistadores spagnoli annientarono nel 1521 per costruire sulle sue rovine Città del Messico);
O infine, quando gli abitanti perdono la memoria di se stessi, e senza nemmeno accorgersene diventano stranieri per se stessi, nemici di se stessi.
Questo fu il caso di Atene, che dopo la gloria della polis classica, dopo i marmi del Partenone, le sculture di Fidia e le vicende della cultura e della storia segnate da nomi come Eschilo, Sofocle, Euripide, Pericle, Demostene, Prassitele, perse prima l’indipendenza politica (sotto i Macedoni e poi sotto i Romani) e più tardi l’autonomia culturale, ma finì col perdere anche ogni memoria di se stessa. Noi spesso, travolti da un facile classicismo di scuola, la pensiamo immobile per secoli nel biancore dei suoi marmi e rifiorita a nuovo splendore con l’indipendenza politica della Grecia nel 1827.
Ma non è così: quando verso la fine del XII secolo il dottissimo Michele Choniate, che veniva da Costantinopoli, divenne vescovo di Atene, restò sbalordito davanti alla terribile ignoranza degli Ateniesi, che non sapevano più nulla delle glorie antiche della propria città, non sapevano più dire ai forestieri che cosa fossero i templi ancora intatti, né sapevano più indicare dove avessero insegnato Socrate, Platone, Aristotele.
Se mai Venezia dovesse morire, non sarà per invasioni nemiche né per l’irruzione di un nuovo popolo. Sarà soprattutto per oblio di se stessa. Oblio di sé, per una comunità del nostro tempo, non vuol dire soltanto dimenticanza della propria storia e delle glorie e sconfitte del passato. Vuol dire anche la mancata consapevolezza di qualcosa che è sempre più evidente e necessario: il ruolo specifico di ogni città rispetto alle altre, la sua unicità e diversità, virtù che nessuna città al mondo possiede quanto Venezia. Sono virtù non solo preziose, ma necessarie in un mondo in cui l’antica dimensione urbana è stata non solo amplificata a dismisura ma stravolta dalla crescita di enormi megalopoli, formicai umani dove in nome della produttività vengono ammassate decine di milioni di uomini, spesso condannati a condizioni e ritmi di vita che nulla hanno a che fare con il senso e lo spirito della città, massima creazione culturale del genere umano, quale venne formandosi attraverso millennii di storia.
In tre modi muoiono le città.
Quando le distrugge un nemico spietato (come Cartagine, rasa al suolo da Roma nel 146 a.C.);
Quando un popolo straniero vi si insedia con la forza, scacciando gli autoctoni e i loro dèi (come Tenochtitlán, la capitale degli Aztechi che i conquistadores spagnoli annientarono nel 1521 per costruire sulle sue rovine Città del Messico);
O infine, quando gli abitanti perdono la memoria di se stessi, e senza nemmeno accorgersene diventano stranieri per se stessi, nemici di se stessi.
Questo fu il caso di Atene, che dopo la gloria della polis classica, dopo i marmi del Partenone, le sculture di Fidia e le vicende della cultura e della storia segnate da nomi come Eschilo, Sofocle, Euripide, Pericle, Demostene, Prassitele, perse prima l’indipendenza politica (sotto i Macedoni e poi sotto i Romani) e più tardi l’autonomia culturale, ma finì col perdere anche ogni memoria di se stessa. Noi spesso, travolti da un facile classicismo di scuola, la pensiamo immobile per secoli nel biancore dei suoi marmi e rifiorita a nuovo splendore con l’indipendenza politica della Grecia nel 1827.
Ma non è così: quando verso la fine del XII secolo il dottissimo Michele Choniate, che veniva da Costantinopoli, divenne vescovo di Atene, restò sbalordito davanti alla terribile ignoranza degli Ateniesi, che non sapevano più nulla delle glorie antiche della propria città, non sapevano più dire ai forestieri che cosa fossero i templi ancora intatti, né sapevano più indicare dove avessero insegnato Socrate, Platone, Aristotele.
Se mai Venezia dovesse morire, non sarà per invasioni nemiche né per l’irruzione di un nuovo popolo. Sarà soprattutto per oblio di se stessa. Oblio di sé, per una comunità del nostro tempo, non vuol dire soltanto dimenticanza della propria storia e delle glorie e sconfitte del passato. Vuol dire anche la mancata consapevolezza di qualcosa che è sempre più evidente e necessario: il ruolo specifico di ogni città rispetto alle altre, la sua unicità e diversità, virtù che nessuna città al mondo possiede quanto Venezia. Sono virtù non solo preziose, ma necessarie in un mondo in cui l’antica dimensione urbana è stata non solo amplificata a dismisura ma stravolta dalla crescita di enormi megalopoli, formicai umani dove in nome della produttività vengono ammassate decine di milioni di uomini, spesso condannati a condizioni e ritmi di vita che nulla hanno a che fare con il senso e lo spirito della città, massima creazione culturale del genere umano, quale venne formandosi attraverso millennii di storia.
Sono una grande ignorante, però frequentare un marito dalmata per 28 anni mi ha costretta ad imparare alcune cose importanti su Venezia, sconosciute ai più, per volontà politica. Venezia e la costa dalmata, un grande passato dimenticato e volutamente annientato, credo sia stato l'inizio della lentissima agonia della memoria storica. Credo.
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