Se l’Italia ha un Codice dei beni culturali e paesaggistici lo deve a Salvatore Settis, storico dell’arte e archeologo
della Normale di Pisa che non si è mai risparmiato nella battaglia per la piena attuazione della Costituzione. Che con l’articolo 9 «promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca
scientifica. Tutela il paesaggio e il patrimonio
storico e artistico della nazione». Rientrato
in Italia nel ’99, dopo aver diretto il Getty Museum, Settis ha intrapreso una tenace battaglia contro la svendita del patrimonio pubblico. Cominciata nel 1991, quando il governo Andreotti
provò a istituire la Immobiliare Italia Spa, e culminato
dieci anni dopo con la Patrimonio dello Stato spa di Tremonti che prevedeva cartolarizzazioni e dismissioni non solo di palazzi pubblici, ma anche di pezzi di paesaggio: «Da allora le ipotesi di dismissione ricorsero assai spesso, più o meno a ogni finanziaria», scrive Settis nel suo nuovo libro Azione popolare, cittadini per il bene comune (Einaudi). «Anche con i governi
di centrosinistra del 1996-2001». Per denunciare lo scellerato tentativo di mettere all’asta il Paese, nel 2002 pubblicò l’incisivo Italia spa. L’assalto al patrimonio culturale (Einaudi) e da allora la sua battaglia per la tutela e la valorizzazione non ha conosciuto soste, sul piano degli studi scientifici, ma anche su quello più direttamente politico. Arrivando, appunto, a stilare il Codice dei beni culturali nel 2004 ma anche a dimettersi da presidente del Consiglio
superiore dei beni culturali in dissenso con i feroci tagli alla cultura firmati dal ministro Bondi nel 2009 e con i suoi tentativi di silenziare quell’organo consultivo. Dopo tutto questo, come tacere ora davanti allo scempio della cosa
pubblica che continua ben oltre la caduta del governo Berlusconi sotto l’egida del governo Monti? Perciò l’elegante e coltissimo professore, facendo suo il motto “Indignez-vous!” del
partigiano Stéphan Hassel mira a scuoterci dal
torpore con il suo nuovo libro (il più schiettamente
politico). E ci invita a rileggere la Costituzione
come manifesto politico contro «la prevalenza del profitto privato sul bene pubblico, la sopraffazione, l’arroccarsi delle caste a difesa di privilegi immeritati, la concezione di
ambiente e paesaggio come materia bruta da
devastare a proprio vantaggio».
Professore, gli italiani hanno perso la capacità
di indignarsi per il sacco della cosa pubblica?
In realtà penso che i cittadini siano sempre meno indifferenti. C’è una grande sensibilità che sta crescendo. Nonostante questo, il sacco dell’Italia è evidente. Perciò credo sia molto importante collegare il saccheggio al patrimonio culturale e al paesaggio con tutte le altre forme di saccheggio a cui stiamo assistendo, con l’economia di rapina che sta proliferando
a spese dello Stato e delle istituzioni pubbliche.
Dobbiamo reagire. Avendo la consapevolezza che l’assalto al patrimonio culturale, così come quello a diritti come la salute e il lavoro, insieme all’assalto alle proprietà pubbliche o
al demanio, sono parte di uno stesso disegno di smontaggio dello Stato; un disegno che ha il “piccolo difetto” di essere completamente illegale. Oltreché contrario all’interesse della generalità dei cittadini.
Nel suo nuovo libro scrive che il patrimonio
d’arte è un “bene comune”. Ma da Craxi a Tremonti a Renzi è considerata «giacimento da sfruttare». La nostra classe
dirigente non capisce che la cultura è un’esigenza irrinunciabile, non merce da depredare?
C’è una diffusa leggenda secondo cui la destra
becera della stagione berlusconiana sarebbe
stata sostituita da una destra colta e pulita.
Ma bisogna constatare amaramente che la destra
colta e tecnocratica del governo Monti fa
esattamente le stesse cose della destra becera
precedente. La destra di Sarkozy, invece, non
ha tagliato i fondi alla cultura. Anzi ha puntato
sulla ricerca come settore strategico. Beninteso
la destra, come lei può ben capire, a me non
piace per niente. Registro però che Frédéric
Mitterrand dichiarava che i fondi del ministero
della Cultura vanno considerati un santuario
intoccabile. E, infatti, non furono diminuiti
di un euro. Questo mentre in Italia si tagliava
spietatamente. E al ministro Sandro Bondi non
importava un bel niente.
Continuando il confronto, nell’attuale
crisi, il ministro della Cultura del governo
Hollande, Aurelie Filippetti, ribadisce
che tagliare la cultura sarebbe una follia.
E in Italia?
Bisogna avere il coraggio di dirselo chiaramente. Ormai anche la sinistra è rassegnata a subire i tagli alla cultura come una sorta di fatalità, dettata dalla crisi economica. Ma non
è vero. Si veda anche la Germania che reagisce alla crisi dicendo che in cultura, tuttavia, si investe. Sono sempre di più i cittadini italiani che protestano contro questa concezione marginale della cultura, vista quasi fosse un lusso.
Ma non sono ancora abbastanza. Intanto i ministri Passera e Ornaghi firmano il manifesto per la cultura de Il Sole 24 ore, si stracciano le vesti per dire che non vorrebbero mai tagliare
in cultura e intanto lo fanno. C’è questa doppia
verità, questo doppio binario.
Al teatro Eliseo, anche la platea di addetti
ai lavori degli Stati generali della cultura
ha contestato apertamente i due ministri.
Ero in Cile (per un ciclo di conferenze sui beni culturali, ndr), l’ho appreso dai giornali. Ma posso dire che i ministri contestati, Ornaghi e Profumo, sono del tutto appiattiti sull’operato dei loro predecessori, Bondi e Gelmini. Trovo
veramente stupefacente che un governo tecnico - appoggiato anche dal Pd - abbia una così totale assenza di prospettiva nella politica culturale del Paese. Il ministro Passera e il viceministro Mario Ciaccia, nel frattempo, continuano
a dire che troveranno 80 miliardi, 100 miliardi...Parlano di infrastrutture, di autostrade, non parlano mai seriamente di messa in sicurezza del territorio nonostante il Paese sia
devastato da sismi e dissestato sotto il profilo idrogeologico. Passera parla sempre in occasioni pubbliche di un’agenda culturale del governo, ma è un flatus vocis dietro al quale
non si vede il più remoto progetto concreto.
Per non dire poi di Ornaghi, che non fa nemmeno promesse. Si limita a dire che lo Stato deve aspettare l’arrivo di finanziatori privati.
Per i beni culturali, Ornaghi auspica «meno Stato e più privati».
Che dica questo è gravissimo. Sarebbe come se un ministro della Repubblica per mantenere l’ordine pubblico dicesse «sarebbe bene chiamare la mafia». Contributi privati ai beni culturali
sono i benvenuti, purché funzioni (secondo Costituzione) il sistema pubblico della tutela, con risorse pubbliche.
Soprintendenze territoriali sempre più depauperate di competenze, blocco delle assunzioni e nomine politiche ai vertici
delle maggiori istituzioni, come la Melandri al MAXXI. Da dove ripartire per uscire da questo impasse?
Nel libro non suggerisco delle ricette per i beni culturali. Ho voluto dare un messaggio del tutto diverso: per poter affrontare il problema della cultura in maniera risolutiva è necessario
inquadrarlo in un ambito più ampio. Il diritto alla cultura fa parte di un orizzonte costituzionale. Bisogna capire alla radice il problema.
Tutte le questioni che lei cita sarebbero facilissime da risolvere se ci fosse un ministro competente capace di prendere tutti i provvedimenti necessari.
Ma un tecnico di indubbia competenza come Mario Monti ha scelto come ministro della Cultura la persona più disadatta, la più lontana da questo compito. Per
evitare che in futuro il ministro della Cultura
sia una figura di quarta o quinta fila bisogna ridare
centralità alla cultura e leggerla nell’orizzonte
degli altri diritti costituzionali. L’articolo 9 non è frutto del caso. Non è un’intrusione. È assolutamente essenziale. La cultura, come il diritto alla salute, al lavoro, all’istruzione
(scuola, università, ricerca) sono essenziali alla democrazia, alla libertà e all’uguaglianza, cioè ai valori fondamentali della Carta. Capendo questo si trova poi anche la soluzione alle singole questioni.
La Costituzione, lei scrive, è un manifesto politico, quanto mai vivo. Non un feticcio.
I diritti che citavo concorrono parimenti a garantire l’autonomia e la dignità del cittadino. L’articolo 9 va messo in relazione con la messa in sicurezza del territorio e con la tutela del
paesaggio. D’altro canto la concezione costituzionale di tutela dell’ambiente risulta dalla combinazione con la tutela della salute e va letta in parallelo all’articolo 32, inteso come diritto alla salute. Per il futuro dell’Italia dobbiamo
tenere insieme tutte queste cose. Non devono essere la seconda o la terza o la quarta preoccupazione, bensì la prima. Attuando la
Costituzione si creerebbe tantissimo lavoro. E ce n’è molto bisogno oggi, specialmente per le generazioni giovani.
Il giurista Stefano Rodotà è stato invitato in Tunisia perché, dopo la Primavera araba, c’è chi pensa a una costituzione
sull’esempio della nostra. La nostra Carta viene presa a modello all’estero e in Italia c’è chi la ritiene inattuale?
La nostra Carta è già stata presa ad esempio da altri Paesi. L’articolo 9 è stato copiato dalla Costituzione portoghese e da quella maltese ed è stato praticamente parafrasato da Paesi del
Sudamerica. Chi parla della nostra Costituzione come di “un ferro vecchio” non sa quel che dice. O forse lo sa molto bene... Chi protesta contro l’articolo 42 sul diritto di proprietà che
è limitato nella Carta italiana dall’utilità sociale, ora dice - come fa Berlusconi - che è vecchia e andrebbe cambiata. E non si accorge che sta criticando una Costituzione del 1948 auspicando
un ritorno allo Statuto Albertino del 1848. Nello Statuto Albertino, infatti, la proprietà privata era un valore assoluto. Ora, dire che la Carta è invecchiata per poi tornare indietro di
cento anni, mi sembra una mossa suicida.
(intervista di Simona Maggiorelli a Salvatore Settis)