Pomeriggio standard di ragazzini. Bicicletta, nel caso mio fieramente da
cross, presa al Camp Darby, la base militare americana, a Tirrenia.
Presa grazie al padre di Steven, il mio amico americano, figlio di un
pastore militare. Grazie a lui ai piedi ho le prime All Star alte di
tutta Pisa. Cazzo, me ne vanterò per sempre. E non parlerò del primo
skateboard.
Steven, il mio amico l’americano, è in quel momento, l’apice della
modernità nel mio quartiere. Io gli sto accanto e godo di riflesso con
oggetti, parole, modi di dire.
I giorni in cui lui comincerà a chiamarmi Ureccia, per via delle
orecchie a sventola ed io “La bodda” per il suo sovrappeso, sono ancora
lontani.
In quel momento siamo molto amici.
Abbiamo dodici anni.
Pomeriggio standard di ragazzini. C’è sicuramente Alberto. Forse Vito,
che in quel momento è il più basso di tutti e con gli anni diventerà
forse il più alto, specializzandosi come medico che fa nascere bambini
alle coppie che hanno difficoltà nel concepire.
Nella mia memoria siamo nelle vicinanze del passaggio a livello che divide il quartiere di Portallucca da quello de “I passi”. Portallucca è il quartiere dei benestanti, “I Passi” quello dei malestanti, e come un prodromo di quel che sempre più assomiglierà alla società moderna, sono divisi da una ferrovia. Ricchi da una parte, poveri dall’altra.
Su questa ferrovia ci sono passaggi a livello con tempi lentissimi.
Cominciano a mandare suoni di campanella con dieci minuti di anticipo.
Si formano code di auto. Solo uno di questi passaggi a livello è di
ultima generazione e rapidissimo. E’ qui che siamo, nel mio ricordo. Lo
ammiriamo, domandandoci se esistano dei sensori sui binari che si
attivano al passaggio del treno.
Un minuto prima che arrivi il convoglio le sbarre si chiudono. Dieci
secondi dopo che è passato, si riaprono. Ammiriamo la modernità, sulle
nostre biciclette, un piede a terra, l’altro sul pedale, ingobbiti sui
manubri pronti allo scatto.
E poi qualcuno di vedetta, come un suricato di città, lancia l’allarme. “Il Landucci!”, grida.
Il Landucci è un vecchio. Di lui niente si sa. Solo che passa, a volte,
sulla via del passaggio a livello con una vecchia bici da uomo con freni
a bacchetta. Una bici vecchia, che in quel momento non ha ancora il
fascino del vintage. Il Landucci è un vecchio, su una bici da vecchio,
con una borsa di cuoio messa a canna della bici. Una borsa vecchia e
schifosa, come lui.
Non sappiamo che mestiere fa, non sappiamo perché pedali tutto curvo in
quel modo, se le sue notti e i suoi risvegli sono accompagnati dagli
scricchiolii del mal di schiena, non sappiamo se ha figli, una moglie,
se ne ha avuta una, se l’ha perduta, se ha pianto, se è rimasto solo.
Che lavoro fece il Landucci? Fu impiegato? Costruttore, operaio,
commerciante? Non sappiamo niente di lui.
Quello che sappiamo invece è che ogni volta che arriva, con la sua
andatura dondolante, sulla vecchia bicicletta, qualcuno lancia l’allarme
e noi, tutti noi ragazzini, veniamo presi da una furia irrefrenabile.
Il Landucci non può attraversare illeso la nostra zona. Questo non è
ammissibile. Perché è vecchio e forse malato ed è, a pensarci adesso,
forse, un futuro possibile che nessuno di noi vuole vedere.
Non sappiamo niente del Landucci ma la sua semplice esistenza ci
disturba. Se al mondo non esistessero Landucci, vecchi claudicanti con
biciclette arrugginite noi potremmo immaginare di restare adolescenti
per sempre, potremmo ignorare i processi che portano il ferro
immarcescibile e immortale ad ossidarsi, sgretolarsi e svanire
addirittura, nei decenni.
Il Landucci è la negazione vivente della nostra illusione di immortalità.
Questo penso ora, non lo pensavo allora, è chiaro. Ero un ragazzino su
una bici da cross gialla e le prime All Star alte ai piedi.
Quando vediamo il Landucci scendiamo dalle bici. Cerchiamo dei sassi. Gli tiriamo i sassi urlandogli contro.
Ricordo che non lanciamo offese. Solo sassi e il nome. Gridiamo
“Landucci!” e via sassate, come se in quel nome fosse contenuto tutto,
un pacchetto completo di vecchiaia, malattia, debolezza, tempo perduto,
tutto insieme. Una cosa che odiamo.
“Landucci!” e sassate.
Non esiste, penso ora, una parola che il Landucci potrebbe pronunciare per fermarci. Non esiste un gesto. Potrebbe fermarsi, scendere, o scappare, non cambierebbe niente nella nostra percezione. Potrebbe avvicinarsi, parlarci, spiegarci, raccontarci tutto di se. Non lo perdoneremmo comunque.
Landucci! gridiamo. E sassate.
Me lo ricordo bestemmiare, imprecare contro il mondo nuovo che è costretto ad abitare. Un mondo diverso da quello in cui è cresciuto, un mondo in cui non c’è rispetto o comprensione per i vecchi, i deboli, i malati. Un mondo che ha modi e gusti incomprensibili. Questo è il mondo in cui, povero Landucci, gli è toccato di invecchiare. Maledetto il mondo.
Maledetto il mondo e maledetti noi. Ci maledice mentre pedala. Si
incurva ancora di più sul manubrio della bicicletta per evitare i sassi e
ci maledice, cercando di raggiungere un punto ics dove ci stancheremo
di perseguitarlo. Una zona sicura.
Mai. Mai avrei immaginato, allora, che sarebbe arrivato il giorno in cui sarei finito dall’altra parte della specie umana. Saremmo stai giovani per sempre, io e i miei amici, non perché lo desiderassimo ma perché ci era sconosciuto il pensiero stesso dell’età, del tempo che passa. Eravamo energia pura, un energia azzurra, immortale, fatta della stessa materia del vento e delle onde di Marina. Non c’erano pensieri proiettati in avanti nel tempo, eravamo presente fatto carne. Comunque assolutamente, inevitabilmente vincenti. Nessuno di noi era malato gravemente, non c’erano dolori del risveglio, circolazioni sanguigne difettose, problemi con gli zuccheri, melanconie immotivate. Eravamo azione pura. Convinzione pura.
Ho scritto queste parole dopo aver visto il video dell’inno del M5s per le elezioni europee. Me ne vergogno, perché altre motivazioni si dovrebbero avere per scrivere cose che altre persone, fossero solo due, forse leggeranno.
Ma è andata così. Voglio raccontarvelo: Nel video si vedono tante
persone che sbattono i pugni sul tavolo. C’è una canzone che accompagna
questi pugni. Un montaggio fatto con spezzoni inviati dai vari
sostenitori e simpatizzanti in giro per l’italia. Nel sottopancia del
video ci sono impressi i luoghi di provenienza. Livorno: pugni sul
tavolo. Cosenza: pugni sul tavolo. Roma: Pugni sul tavolo. Singoli,
coppie, famiglie.
E’ un montaggio, un videoclip su una canzone che parla del bene e del
male. Quelli che hanno fatto il video rappresentano il bene e la voce
cantante sottolinea, nel ritornello:
“E sbatterò i miei pugni su quel tavolo
e urlerò tutta la rabbia che c'è in me
E lotterò con le mie forze contro il diavolo
del dio denaro che ha corrotto le anime”
Il diavolo. Le anime. Quando ho visto il video ho subito avuto un moto di fastidio. Tutti i pugni sul tavolo dovevano stare a tempo con il rullante della batteria, era chiaro l’intento, ma non ce n’era neppure uno che ci stesse giusto.
Visto che mi diletto di montaggio e sono un precisino, mi sono subito girate le palle per questo.
Non ci vuole davvero niente a fare un montaggio mettendo i pugni sul
tavolo a tempo con la musica. E poi, insomma, non si era deciso che le
cose fatte bene sono meglio di quelle fatte male?
No. Fatto bene e fatto male sono diventate condizioni soggettive.
Poi mi sono girate le palle per la questione del Diavolo e delle anime
perché continuo a coltivare il sogno di una società laica basata sulla
razionalità dove il Diavolo e l’anima possono tranquillamente togliersi
dai coglioni.
E poi mi sono girate le palle per la somiglianza degli atteggiamenti con
i famigerati spot di Italia 1, dove spettatori anonimi, gente comune,
si prodigava nell’inventare modi per pronunciare quelle due parole:
“Italia Uno!” appunto, nel modo più singolare e curioso possibile.
Nel video accadeva la stessa cosa. Qualcuno muoveva le labbra,
timidamente, sul testo della canzone. Una ragazza ballava come una
ballerina di tv, altri facevano facce buffe o espressioni accigliate. E
poi via, al momento sbagliato, anche se di poco, sempre sbagliato, a
sbattere i pugni sul tavolo.
Quasi nessuno sbatteva i pugni con sincera energia. Appoggiavano i pugni sul tavolo, fieri e fuoritempo.
Avendo il vizio di Facebook ho voluto postarlo subito e mi sono messo a spremermi le meningi per trovare una battuta acuta e ficcante. Non me n’è venuta nessuna.
Ho passato minuti a pensare. Che spreco di tempo.
Ho avuto anche paura perché, al di là della bassa qualità del video,
delle note, della voce cantante, delle mossette dei partecipanti,
percepivo un odore di vittoria imminente.
Il famoso profumo di vittoria. Immagino.
I simpatizzanti del M5s tra gli altri modi di dire più diffusi, usano lo slogan “Vinciamo noi”. Credo che ci sia un punto esclamativo al termine dell’enunciato. “Vinciamo noi!”.
In quel momento, vedendo il video, ho pensato che sì, era vero. Avrebbero vinto loro, qualsiasi cosa questo significasse.
Ho sbagliato il verbo, non avrebbero, avevano vinto loro. Avevano vinto
perché erano perfettamente assolutamente contemporanei, fatti di una
pasta e dotati di un gusto che mi risulta incomprensibile e forse per
questo tanto mi disturba.
Provai sensazioni simili nel 1994, quando Silvio Berlusconi vinse le
elezioni ed io vidi, per la prima volta, i suoi sostenitori in Tv,
persone tanto diverse da quelle che avevo in uso di frequentare. Persone
con modalità di pensiero e gusti, che non riuscivo a comprendere e che,
di conseguenza, disprezzavo.
Ho disprezzato, allo stesso modo, ognuna di quelle belle facce di
persone di buona volontà che sono apparse nel video. Tutti quanti, anche
i bambini. Ho detestato le capigliature, le basette e le barbe
ricamate, gli aspetti curati, quelli trasandati, tutto quanto. Anche gli
arredamenti sullo sfondo e le luci giallastre.
Ed è stato allora che sono diventato il Landucci. Mi sono sentito
vecchio, in un mondo che genera atteggiamenti e modi che non capisco e
che disprezzo.
Ho sentito le pietre future volarmi a pochi centimetri dalla testa. Quelle pietre erano gusti e modi che non comprenderò mai.
Il futuro prospettatomi dai movimenti, dalle espressioni delle persone
presenti in quel video, mi faceva paura. Li ho immaginati al potere.
Ho preso la bicicletta allora e ho cominciato a pedalare per andare da un’altra parte. Una zona sicura.
Ho avuto l’impressione di sentire delle voci: Il Landucci! Dagli al Landucci!.
Io sono il Landucci.
Così imparo.
(Gianni Pacinotti)
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