È questa frase di Nietzsche quella che può riassumere il libro "Uno psicologo nei lager" di Viktor E. Frankl.
Il dolore dell'uomo assomiglia al comportamento dei gas; con una certa quantità di gas, posta sotto pressione, riempe in ogni caso uno spazio vuoto, indipendenetemente dalla sua grandezza, così il dolore, grande o piccolo che sia, riempe in ogni caso l'animo dell'uomo.
In questo testo non si parla solo di sofferenza, ma anche di amore, definito come il punto più alto al quale l'essere umano possa innalzarsi.
L'amore non si riferisce affatto all'esistenza corporea di una persona, ma intende con profondità straordinaria l'essere spirituale della creatura amata: il suo "essere così" (come dicono i filosofi). Sono del tutto fuori causa la sua "esistenza", il suo essere-qui-con-me, perfino la sua vita fisica, il suo essere-in-vita. Se la persona amata sia viva o no, io lo ignoro, né lo verrò a sapere (durante l'internamento non potemmo scivere ne ricevere lettere), ma in questo momento ciò non ha alcuna importanza. Che la persona amata sia viva o no non ho quasi bisogno di saperlo: tutto questo non riguarda il mio amore, il mio pensiero amoroso, la contemplazione amorosa della sua immagine spirituale. Se avessi saputo che mia moglie era morta, credo che questa consapevolezza non m'avrebbe affatto turbato: avrei continuato nell'amorosa contemplazione, i miei dialoghi spirituali sarebbero stati ugualmente intensi, m'avrebbero dato la stessa pienezza."
Ho letto però anche delle grosse corbellerie che non mi trovano d'accordo: Se la vita ha un significato in sé, allora deve avere un significato anche la sofferenza. La sofferenza, in qualche modo, fa parte della vita - proprio come il destino e la morte. Solo con miseria e morte l'esistenza umana è completa!".
Forse la frase migliore del libro è questa: Non importa affatto cosa possiamo attenderci noi dalla vita, ma importa, in definitiva, solo ciò che la vita attende "da noi"!

Un violinista nella metropolitana. Una storia vera. Un uomo si mise a sedere in una stazione della metro a Washington DC ed iniziò a suonare il violino; era un freddo mattino di gennaio. Suonò sei pezzi di Bach per circa 45 minuti. Durante questo tempo, poiché era l'ora di punta, era stato calcolato che migliaia di persone sarebbero passate per la stazione, molte delle quali sulla strada per andare al lavoro. Passarono 3 minuti ed un uomo di mezza età notò che c'era un musicista che suonava. Rallentò il passo e si fermò per alcuni secondi e poi si affrettò per non essere in ritardo sulla tabella di marcia. Alcuni minuti dopo, il violinista ricevette il primo dollaro di mancia: una donna tirò il denaro nella cassettina e senza neanche fermarsi continuò a camminare. Pochi minuti dopo, qualcuno si appoggiò al muro per ascoltarlo, ma l'uomo guardò l'orologio e ricominciò a camminare. Quello che prestò maggior attenzione fu un bambino di 3 anni. Sua madre lo tirava, ma il ragazzino si fermò a guardare il violinista. Finalmente la madre lo tirò con decisione ed il bambino continuò a camminare girando la testa tutto il tempo. Questo comportamento fu ripetuto da diversi altri bambini. Tutti i genitori, senza eccezione, li forzarono a muoversi. Nei 45 minuti in cui il musicista suonò, solo 6 persone si fermarono e rimasero un momento. Circa 20 gli diedero dei soldi, ma continuarono a camminare normalmente. Raccolse 32 dollari. Quando finì di suonare e tornò il silenzio, nessuno se ne accorse. Nessuno applaudì, ne' ci fu alcun riconoscimento. Nessuno lo sapeva ma il violinista era Joshua Bell, uno dei più grandi musicisti al mondo. Suonò uno dei pezzi più complessi mai scritti, con un violino del valore di 3,5 milioni di dollari. Due giorni prima che suonasse nella metro, Joshua Bell fece il tutto esaurito al teatro di Boston e i posti costavano una media di 100 dollari. Questa è una storia vera. L'esecuzione di Joshua Bell in incognito nella stazione della metro fu organizzata dal quotidiano Washington Post come parte di un esperimento sociale sulla percezione, il gusto e le priorità delle persone. La domanda era: "In un ambiente comune ad un'ora inappropriata: percepiamo la bellezza? Ci fermiamo ad apprezzarla? Riconosciamo il talento in un contesto inaspettato?". Ecco una domanda su cui riflettere: "Se non abbiamo un momento per fermarci ed ascoltare uno dei migliori musicisti al mondo suonare la miglior musica mai scritta, quante altre cose ci stiamo perdendo?"
Qui l'ho ripresa lo scorso 11 marzo mentra camminava sul cornicione a casa delle mie due amiche. Ieri ho saputo che un'auto l'ha investita e, dopo essersi trascinata sino al giardino di casa, si è lasciata andare. Era la più piccola del trio di gatti di quella casa e, per me, era la più simpatica e giocherellona. Mi mancherà moltissimo.

È successo nel marzo del 1945 sulla collina sopra Belluno, il Bosco delle castagne. La morte è passata di là, travestita con divise di solato, quanto di più prossimo alla banalità del male, alla normalità della morte. Ai rami dei castagni hanno appeso con le corde un grappolo di giovani. I castagni per qualche anno hanno continuato a rinverdire ogni volta che la traiettoria del sole si alzava dopo il lungo inverno e la vita si risvegliava. Poi il contagio ha fatto effetto, dopo qualche anno. E adesso quei castagni sono scheletri neri, con i rami tagliati. Non crescono, non buttano germogli. La cura di uomini che non volevano vederli abbattuti ha consentito che restassero lì, come relitti di quegli anni di morte. E ogni primavera, verso le Idi di marzo, salgono nel bosco per tornare a trovarli.








