Qualche mese più tardi, per la precisione era la sera del 16 gennaio del 1969, un giovane studente si avvicinò al monumento del re Santo. Sotto il cappotto nascondeva una tanica di benzina. Se la versò addosso e si diede fuoco con un accendino.
Le fiamme inghiottirono i suoi capelli biondi e la sua esile corporatura da ragazzino.
Si chiamava Jan Palach, quel ragazzino, e bruciò come un bonzo vietnamita.
Il fuoco si portò via la sua vita, ma accese una speranza che sopravvisse per venti anni tondi tondi, fino a che il muro di Berlino, crollando, non fece rotolare i suoi calcinacci fino a Praga.
Quando Jan Palach si decise alla sua protesta estrema, di se stesso volle sottrarre al rogo solo una cosa: i quaderni che lasciò in uno zaino a distanza di sicurezza dalle fiamme.
Tra i suoi appunti ebbe una relativa risonanza questa frase: "Poiché i nostri popoli sono sull'orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l'onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana".
Ti devo confessare anche questo, Tito. A Jan Palach ci sono arrivato solo per la canzone di uno dei cantautori - così si chiamavano allora, non so ora - che nei miei anni di liceo andava per la maggiore. Parlo di Francesco Guccini.
"Jan Hus di nuovo sul rogo bruciava all'orizzonte del cielo di Praga...". Così faceva la canzone: e io ci misi un bel po' di tempo prima di scoprire chi era quell'altro Jan di cui Guccini parlava. Jan Hus, cioè il riformatore religioso boemo condannato per eresia e bruciato sul rogo nel 1415.
Paragone calzante fino ad un certo punto: perché quella di Jan Hus fu morte comminata, a fronte di una morte voluta da Jan Palach come uno schiaffo contro l'orrore.
Però sia nell'uno che nell'altro caso le fiamme sono state in effetti appiccicate da un potere violento e incapace di ammettere o anche solo di concepire la libertà di pensiero così come la differenza che la libertà presuppone e alimenta.
Grazie a Guccini - e a Jan Hus - feci mio un nome che la logica degli schieramenti, anche tra ragazzi, mi rendeva più distante.
Erano così, allora, le assemblee a scuola: ognuno a ricordare i propri martiri e a rinfaciarseli. Gli studenti di destra che ricordavano Jan Palach e noi che li rintuzzavamo con Salvador Allende.
Schermaglie di poca sostanza e pochi numeri, oramai: i più se ne fregavano bellamente e alle assemble amazzavano il tempo preparando le interrogazioni. Altri intrecciavano lì le prime storielline d'amore e ancora oggi, solo a ripensarci, riescono a destare la mia invidia: temo, in effetti, che la mia foga per le assemblee avesse un po' più a vedere con la sempiterna storia della volpe e dell'uva.
In ogni caso, pur con qualche imbarazzo, la Primavera di Praga entrò a far parte anche del mio bagaglio di emozioni, prima ancora che di idee, della politica.
Caro Tito, ci pensavo l'altro giorno. Lo sai qual'è una delle poche cose che mi ricordo della guerra in Vietnam, intendo quella "vera"?
Ero un bambino, ma quella sequenza sfuocata, in bianco e nero, trasmessa qualche minuto prima di carosello, mi è rimasta impressa come un marchio a fuoco. E di fuoco appunto si trattava.
Era un bonzo - così si chiamavano i monaci buddisti vietnamiti - che per protestare contro l'occupazione americana si era dato alle fiamme. Se chiudo gli occhi la scena la rivedo tutta: lui seduto nella posizione del loto, testa rasata e sguardo contemplativo, un braccio che come un antico gesto sacerdotale si solleva da sotto la tunica, le fiamme che lo avvolgono e lo consumano.
Ancora oggi mi chiedo come mai la RAI dell'epoca, estremamente attenta a non mostrare certe cose, avesse deciso di trasmettere quelle immagini. Certo, non per solidarietà con le sofferenze dei vietnamiti.
Piuttosto per disattenzione, o forse perché convinta di trovarsi davanti ad un gesto, diciamo così, esotico, una sorta di curiosità antropologica che niente aveva a vedere con quello che davvero succedeva in Vietnam. Chissà.
Di bonzi che si trasformano in torce umane ce ne furono parecchi, in quegli anni. Però pensavo che fosse finita lì.
L'altro giorno, invece, curiosando su internet ho letto di un altro bonzo morto per essersi dato fuoco. Nel 2003, non nel 1966.
Per il suo sacrificio Thich Chan Hy, questo il suo nome, ha scelto un altare all'esterno del suo tempio e ha asciato questo messaggio:
"Desidero che tutti i vietnamiti che vivono in Vietnam e all'estero possano praticare liberamente la loro religione. Desidero che tutti i vietnamiti possano godere dei diritti umani e siano protetti da uno Stato democratico. Desidero che i vietnamiti conservino i diritti sulla loro terra".
Da Jan Palach a Thich Chan Hy: troppi corpi bruciati in questa storia.
Le fiamme inghiottirono i suoi capelli biondi e la sua esile corporatura da ragazzino.
Si chiamava Jan Palach, quel ragazzino, e bruciò come un bonzo vietnamita.
Il fuoco si portò via la sua vita, ma accese una speranza che sopravvisse per venti anni tondi tondi, fino a che il muro di Berlino, crollando, non fece rotolare i suoi calcinacci fino a Praga.
(Tito Barbini)
Y en a qui meurent bien trop tard
Quand leur paradis est passé
Y en a qui meurent au hasard
D'un coup de dé
Y en a qui meurent sans savoir
Qu'ils ne sont jamais nés vraiment
Y en a qui meurent sans espoir
Et pleins d'argent
Je voudrais mourir dans tes bras [x2]
Y en a qui meurent dans les mémoires
C'est bien plus que perdre la vie
Où ceux qui restent quittent le noir
Et vous oublient
Y en a qui meurent en marchant
Pour aller cacher leur vieillesse
Aux neiges du grand désert blanc
Pleines de promesses
Je voudrais mourir dans tes bras [x2]
Y en a qui meurent parce que c'est beau
De voir le soleil se coucher
Et d'attendre le jour nouveau
De l'autre côté
Y en a qui meurent en dormant
En offrant un sourire aux anges
Y en a qui meurent encore enfants
Et gagnent au change
Je voudrais mourir dans tes bras [x2]
Y en a qui meurent la bouche pleine
En libérant un dernier rot
En se caressant la bedaine
Mais trop c'est trop
Quand d'autres vont le ventre vide
Berçant leur mort à bout de bras
En suivant la main qui les guide
Là où on ne les verra pas
Je voudrais mourir dans tes bras [x2]
Y en a qui meurent par erreur
Pour une poussière sur la balance
Quand la justice a ses rancœurs
Ou ses absences
Y en a qui meurent dans les poubelles
Les bannis de la société
Leur rêve au bout d'une ficelle
Ballon crevé
Je voudrais mourir dans tes bras [x2]
Y en a qui meurent au printemps
Comme des éclairs, comme des flambeaux
Barrant la route un court instant
Aux chars d'assaut
Y en a qui meurent avec permis, matriculé
Comme il se doit
Laissant un casque et un fusil
Sur une croix
Je voudrais mourir dans tes bras [x2]
Y en a qui meurent tous les soirs
Quand le spectacle est terminé
Quand ils retrouvent dans leur miroir
Leur vérité démaquillée
Y en a qui meurent en marguerite
Effeuillée d'une main distraite
Un peu, beaucoup, beaucoup trop vite
Et ça s'arrête !
Je voudrais mourir dans tes bras [x3]
Prends ma main, ne la lâche pas
Quando Jan Palach si decise alla sua protesta estrema, di se stesso volle sottrarre al rogo solo una cosa: i quaderni che lasciò in uno zaino a distanza di sicurezza dalle fiamme.
Tra i suoi appunti ebbe una relativa risonanza questa frase: "Poiché i nostri popoli sono sull'orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l'onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana".
Ti devo confessare anche questo, Tito. A Jan Palach ci sono arrivato solo per la canzone di uno dei cantautori - così si chiamavano allora, non so ora - che nei miei anni di liceo andava per la maggiore. Parlo di Francesco Guccini.
"Jan Hus di nuovo sul rogo bruciava all'orizzonte del cielo di Praga...". Così faceva la canzone: e io ci misi un bel po' di tempo prima di scoprire chi era quell'altro Jan di cui Guccini parlava. Jan Hus, cioè il riformatore religioso boemo condannato per eresia e bruciato sul rogo nel 1415.
Paragone calzante fino ad un certo punto: perché quella di Jan Hus fu morte comminata, a fronte di una morte voluta da Jan Palach come uno schiaffo contro l'orrore.
Però sia nell'uno che nell'altro caso le fiamme sono state in effetti appiccicate da un potere violento e incapace di ammettere o anche solo di concepire la libertà di pensiero così come la differenza che la libertà presuppone e alimenta.
Grazie a Guccini - e a Jan Hus - feci mio un nome che la logica degli schieramenti, anche tra ragazzi, mi rendeva più distante.
Erano così, allora, le assemblee a scuola: ognuno a ricordare i propri martiri e a rinfaciarseli. Gli studenti di destra che ricordavano Jan Palach e noi che li rintuzzavamo con Salvador Allende.
Schermaglie di poca sostanza e pochi numeri, oramai: i più se ne fregavano bellamente e alle assemble amazzavano il tempo preparando le interrogazioni. Altri intrecciavano lì le prime storielline d'amore e ancora oggi, solo a ripensarci, riescono a destare la mia invidia: temo, in effetti, che la mia foga per le assemblee avesse un po' più a vedere con la sempiterna storia della volpe e dell'uva.
In ogni caso, pur con qualche imbarazzo, la Primavera di Praga entrò a far parte anche del mio bagaglio di emozioni, prima ancora che di idee, della politica.
(Paolo Ciampi)
Caro Tito, ci pensavo l'altro giorno. Lo sai qual'è una delle poche cose che mi ricordo della guerra in Vietnam, intendo quella "vera"?
Ero un bambino, ma quella sequenza sfuocata, in bianco e nero, trasmessa qualche minuto prima di carosello, mi è rimasta impressa come un marchio a fuoco. E di fuoco appunto si trattava.
Era un bonzo - così si chiamavano i monaci buddisti vietnamiti - che per protestare contro l'occupazione americana si era dato alle fiamme. Se chiudo gli occhi la scena la rivedo tutta: lui seduto nella posizione del loto, testa rasata e sguardo contemplativo, un braccio che come un antico gesto sacerdotale si solleva da sotto la tunica, le fiamme che lo avvolgono e lo consumano.
Ancora oggi mi chiedo come mai la RAI dell'epoca, estremamente attenta a non mostrare certe cose, avesse deciso di trasmettere quelle immagini. Certo, non per solidarietà con le sofferenze dei vietnamiti.
Piuttosto per disattenzione, o forse perché convinta di trovarsi davanti ad un gesto, diciamo così, esotico, una sorta di curiosità antropologica che niente aveva a vedere con quello che davvero succedeva in Vietnam. Chissà.
Di bonzi che si trasformano in torce umane ce ne furono parecchi, in quegli anni. Però pensavo che fosse finita lì.
L'altro giorno, invece, curiosando su internet ho letto di un altro bonzo morto per essersi dato fuoco. Nel 2003, non nel 1966.
Per il suo sacrificio Thich Chan Hy, questo il suo nome, ha scelto un altare all'esterno del suo tempio e ha asciato questo messaggio:
"Desidero che tutti i vietnamiti che vivono in Vietnam e all'estero possano praticare liberamente la loro religione. Desidero che tutti i vietnamiti possano godere dei diritti umani e siano protetti da uno Stato democratico. Desidero che i vietnamiti conservino i diritti sulla loro terra".
Da Jan Palach a Thich Chan Hy: troppi corpi bruciati in questa storia.
(Paolo Ciampi)
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