Nei giorni appena passati, complice la convalescenza che mi ha bloccato a casa, mi sono letto con calma, centellinandolo pagina dopo pagina, l'ultimo bellissimo libro di Tito Barbini "I giorni del riso e della pioggia". Narra della risalita del Mekong (quasi 5000 km, più di 3 volte la lunghezza della nostra Italia) dal delta fino al Tibet, fatto dal Chatwin toscano che ormai da tre anni prediligo con il cuore e con la testa. Prima la Patagonia e l'Antartide e adesso il Mekong.
Se da piccolo, prima sulle pagine del Corriere dei Piccoli e poi come libro di testo alle medie, il mio fiume letterario è stato "Il regno sul fiume" di Enzo Demattè (e quindi il mio trevigiano Sile) adesso, con qualche anno in più sulle spalle, lo è diventatato Il Mekong, lo stesso fiume immortalato da due grandi film: "Il cacciatore" di Michael Cimino e "Apocalypse Now" di Francis Ford Coppola.
E il Mekong è per Tito una metafora della vita e delle esperienze che facciamo: il "panta rei", il "tutto scorre" dei presocratici, o, meglio, il "Nessun uomo può bagnarsi nello stesso fiume per due volte, perché né l'uomo né le acque del fiume sono gli stessi" di Eraclito. Ma nel Mekong ci si bagna due volte, prima per la pioggia e poi per il sudore.
Uno dei capitoli che più mi hanno toccato è quello intitolato "Come eravamo?" dove, quando Tito comincia a parlare di My Lai subito mi viene in mente (prima ancora che lo citi l'autore stesso) la mia vicina Sant'Anna di Stazzema.
Oggi ho preso una corriera nella notte e mi sono diretto a Hue, l'antica capitale del Vietnam, con un biglietto di andata e ritorno.
Da qui ho affittato un taxi per recarmi nel piccolo villaggio di My Lai.
Ai più questo nome non dice niente ma basta un piccolo esercizio della memoria per ricordarsi del posto in cui gli americani si macchiarono della strage più crudele e stupida della loro storia. O almeno dell'intero Novecento.
Per trovare qualcosa di analogo bisogna ritornare al genocidio degli indiani e a quell'alba sul fiume Sand Creek, quando il giovane colonnello Chivington ordinò il massacro.
I guerrieri erano a caccia del bisonte. Bambini, donne, anziani, colti nel sonno, arrossarono il fiume con il loro sangue.
A My Lai a diventare rossi del sangue di decine di inermi furono i canali delle rigogliose risaie.
Quel 16 marzo 1968 gli uomini del tenente William Calley fecero terra bruciata di tutto e tutti. Nel villaggio non vi erano vietcong né combattenti né armi, ma solo bambini, donne, anziani. Furono radunati dentro un fossato e mitragliati. Prima le donne vennero stuprate.
Quando il tenente Calley, comandante del plotone, scorse una bambina che cercava di arrampicarsi per scappare l'afferrò e la rigettò nel fossato. Poi aprì il fuoco. Per completare il tutto, per aggiungere strazio a strazio, alcuni corpi furono mutilati.
Questo gigantesco crimine fu portato all'attenzione del mondo grazie agli sforzi di un giornalista freelance, il cui lavoro di inchiesta fu poi divulgato dai grandi mezzi di informazione americani, e questo, per inciso, è anche una dimostrazione di quanto sia vitale l'indipendendenza della stampa.
Seguì un processo, in cui si dovettero ascoltare cose incredibili.
Il soldato Varnando Simpson così provò a giustificarsi:
"Non dovevi cercare la gente da uccidere, erano lì. Tagliai loro le gole, le mani, le lingue, li scotennai. Lo feci. Molti lo fecero e io feci come gli altri".
I militari fecero una pausa per il pranzo intorno a mezzogiorno poi ripresero il massacro. Alla fine oltre cinquecento persone furono trucidate.
Ancora oggi sono conservati i legni affumicati delle capanne e un piccolo museo custodisce le immagini e i numeri della strage.
E qui c'è qualcosa che mi ricorda un altro piccolo paese assai più vicino a casa mia: Sant'Anna di Stazzema.
Anche lì i massacratori arrivarono all'alba.
Anche lì oggi si trattiene la memoria di quello che accadde, senza enfasi, ma solo con la forza dei fatti, della verità.
Avevo già visto le immagini del massacro sui giornali e alla televisione ma rivederle qui mi ha profondamente scosso. Sono custodite da una memoria che chiede di non dimenticare.
Il comando dei marines cercò subito di insabbiare la storia. Colin Powell, allora maggiore, fu incaricato di stendere il rapporto che doveva consentire di archiviare tutto, negando qualsiasi massacro.
A My Lai, si disse, semplicemente erano stati uccisi centoventi soldati nemici. Un po' come la storia dei partigiani che, si diceva, durante la nostra guerra di liberazione, si nascondevano tra la popolazione civile.
Solo un anno dopo, quando tutto il mondo ormai era venuto a conoscenza del massacro, venne inviata un'indagine formale che raccolse prove sufficienti a incriminare trenta soldati americani per crimini di guerra. Fu condannato solo il tenente Calley, che peraltro restò in carcere tre giorni, poi venne messo agli arresti domiciliari e quindi liberato per interessamento personale del presidente Nixon. Ancor aoggi lo possiamo incontrare nel negozio di famiglia: una gioielleria in Texas.
Raccolgo tutte queste informazioni in questo pomeriggio a My Lai. Ci sono documenti che arrivano da tutto il mondo. Mi colpisce un piccolo libriccino di Richard Boyle, il giornalista americano freelance che venne qui di persona per indagare sul massacro:
"My Lai non fu l'azione di un solo uomo. Non fu l'azione di un plotone o di una compagnia. Fu il risultato di una campagna ordinata, pianificata e ben concepita degli alti comandi per dare una lezione agli abitanti di Quang Ngai. Per me e per la mia generazione, My Lai ha rappresentato il pugno finale in bocca, la fine delle illusioni. Non potremo più dire che non sapevamo. Il giorno in cui sapemmo di My Lai, le nostre vite cambiarono".
E io ancora oggi rifletto su tutto questo.
I presidenti americani, da Johnson a Nixon, hanno mandato contro questo popolo di minuscoli contadini un immenso stuolo di ragazzi supernutriti e superarmati. Ragazzi spinti all'uso delle armi e che, giorno dopo giorno, uccidevano anche la loro umanità.
A conclusione di un bellissimo e terribile film di Stanley Kubrick, Full Metal Jacket, i marines americani avanzano verso un orizzonte in fiamme, cantando "Topolin, Topolin viva Topolin". Eccoli ritornati bambini, terrorizzati e feroci allo stesso tempo:
"Su venite a far baldoria insieme a Topolin,
anche noi, anche voi, canterem così.
Come noi bambini, tu sei tanto piccolin,
Topolin, Topolin viva Topolin!".
Ma poi, come con gli altri suoi libri, Tito torna anche a parlare più in generale del viaggio, della condivisione, della vita.
Ho preso a viaggiare tardi nella vita, però poi non mi sono più fermato.
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È sempre possibile ricominciare di nuovo, magari, questa volta, rimettendo la propria persona, nel suo significato più profondo, al centro della propria vita.
E poco importa se il tempo che mi rimane è di gran lunga più corto di quello trascorso.
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Domani arrivo alla frontiera tra la Thailandia e la Birmania. Il viaggio sta rivelandosi ogni giorno più coinvolgente. Mi sento bene. Questo viaggio lungo il fiume mi sta donando due cose: da una parte sorprese e scoperte che nornalmente avrei ignorato; dall'altra tutte le parti di me stesso che altrimenti avrei perso. Viaggio alla ricerca di me stesso perché non potrei fare altrimenti. Ma allo stesso tempo in assenza di me stesso, e naturalmente nel trovare l'uno comprendo l'altro. Così si stanno dipanando i miei sogni, le mie passioni, le mie delusioni. Prendo appunti su un'agendina e quando mi fermo la sera vado a cercarmi un internet point, tanto ormai ci sono nei più sperduti angoli del mondo.
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Così, in questo stesso istante, ho compreso che il segreto sta nel rivolgersi sempre meno al passato e al futuro e vivere piuttosto il presente. Piuttosto l'idea della circolarità del tempo si riaffaccia ancora nella mia testa.
Il tempo come un cerchio. Ma anche il cerchio attorno al quale i nostri antenati si riunivano per raccontare.
E questo è importante. Non basta vivere una storia, un'avventura, una passione, se poi non possiamo raccontarla a qualcuno o anche solo a noi stessi.
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In una tasca dello zaino avevo nascosto un foglio con un proverbio malgascio. Lascio ai suoi versi l'ultima pagina di questo straordinario viaggio:
"Sette strade partono dall'albero della vita.
La prima non è la strada dell'uomo,
la seconda non è mai stata tracciata,
la terza si perde tra le nebbie del fiume,
la quarta è del tutto vietata,
la quinta non porta da nessuna parte,
la sesta forse inizia ma non finisce,
e la settima nessuno sa se esista.
Eppure, figlio, ti dico: se sei un uomo, prendi il bastone e parti".
Ora è quasi mezzogiorno, lo vedo dalle ombre corte delle persone e degli oggetti che mi stanno attorno.
Penso però che non sono solo le ombre ad essere più corte. Anche il tempo che ho davanti, per quanto mi sarà concesso, è più corto rispetto al tempo già trascorso. Al mio tempo.
E guardo avanti, guardo come si guarda un fiume che semplicemente scorre, come ha sempre fatto.
Guardo senza pensieri e senza presunzioni.
Con meno ansia di quando sono partito, senza chiedermi a che punto è il fiume, dove e come arriverà al mare.
Sostanzialmente la letteratura di Tito è ben descritta da questo suo stesso passo
... letteratura di viaggio che peraltro mi soddisfa solo quando non è solo una specie di giornale di bordo, quando non si esaurisce nella cronaca, nel resoconto, ma semmai restituisce una consapevolezza nuova e più autentica su se stessi e il mondo.
Tito ad un certo punto parla delle zanzare e scrive
La navigazione è stata spossante, segnata da un caldo terrificante che pareva volever trasformare in sudore ogni forma di vita. Ma a funestarla sono stati soprattutto i nugoli di zanzare, in quantità e dimensioni tali che non credo di aver mai visto qualcosa del genere. Nugoli compatti come legioni in assetto di guerra.Mi chiedo se Titto abbia mai provato le zanzare finlandesi nei mille laghi di quella parte della Scandinavia tra giugno e luglio. Quando lo farà vorrò leggere i suoi appunti.
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Contro di loro ho ingaggiato una guerra senza quartiere, provando ad attrezzare difese solo apparentemente adeguate. Il repellente l'ho spalmato sin sopra i vestiti.
Non c'è stato nulla da fare. I maledetti insetti hanno travolto alla svelta ogni resistenza, con un fare simile all'incedere trionfale degli elicotteri americani di Apocalypse Now, quando appaiono al suomo della Cavalcata delle Valchirie.
Questo post è illustrato con alcune delle 1000 figurine del Corriere dei Piccoli del 1969 relative ai topos citati nel libro (cursore sulla figurina per leggerne il titolo).
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