Ieri ho visto Amour (di Michael Haneke, 2012).
Mi ha ricordato, per certi versi, Una Sconfinata giovinezza (di Pupi Avati, 2010).
Entrambi molto belli.
Entrambi hanno risvegliato in me emozioni sopite (messe a tacere da un inconscio che cerca di farmi sopravvivere nel day-by-day).
Entrambi i titoli sono significativi.
Cosa
distingue, oggi e proprio oggi, un artista dalla pletora di “creativi”
che ci affligge in tutti i campi dell’espressione, con il loro
rimasticare il già detto e troppo detto – varianti di varianti di
varianti, echi di echi di echi – o la pretesa di un “nuovo” che è poi il
mercantile kitsch dell’epoca, il trash dello zeitgeist più pretenzioso e
saccente? Direi la profondità, e cioè la ricerca che il lettore o
spettatore o ascoltatore appena
esigente non può non condividere, della “verità morale”, così come
l’hanno intesa i maggiori artisti di sempre. Se c’è questo, le scelte
che ciascun artista compie per esprimerla possono anche risultare
secondarie.
Ma è questo
che la società dei consumi trascura o mistifica, e quando qualcuno
sembra mirarvi, la indirizza e ricatta per farne “comunicazione” e
“narrazione” e renderla digeribile alle masse (da loro acquistabile) e,
se non alle masse, alle schiere formate dalle corporazioni consolidate,
ai poteri e sottopoteri del settore al cui centro sono i mediatori e
comunicatori dei molti mezzi, nella cui area o scia operano anche gli
artisti che hanno qualche talento, ma facilmente addomesticabile. La
distinzione tra il nefasto, il superfluo e il necessario riguarda o
dovrebbe riguardare ogni campo dell’attività umana, ma l’espressione
artistica più di ogni altro.
Michael
Haneke si è affermato con film molto duri, che all’inizio ci sembrarono
perfino eccessivi e dubbi perché sembrava volessero disturbare per
partito preso. Ma subito, con film come La pianista, Caché o II nastro bianco,
si comprese che il suo era un modo serissimo di considerare il cinema e
di richiedere al pubblico di attenzione e di serietà pari ai suoi. Con Amour,
straziante agonia di due vecchi cultori di musica minuziosamente
evocata, una coppia borghese schiva, banale e perfino noiosa, gli
sarebbe stato facile non solo vincere premi ma anche commuovere vaste
platee, tanto il problema della vecchiaia è comune, ma si direbbe che
dell’esito del suo lavoro egli si sia dimenticato per cercare il massimo
di verità e di rispetto che il soggetto esigeva. Pochi film hanno
saputo rappresentare la vecchiaia con pari forza -dei giapponesi
Kinoshita, Ozu, Kurosawa, di McCarey, di De Sica – ma forse nessuno ha
saputo rappresentare in cinema l’umana corruzione dei corpi (the way of
all flesh), il progressivo annientamento di ogni energia, la sudditanza
alla malattia, con l’attenzione di Haneke. E di raccontare infine la
scelta di non più tollerare il dolore della persona amata e il proprio
dolore.
Dentro una scena quasi unica – un appartamento – e con pochi personaggi di contorno
– una figlia, un allievo, una coppia di portinai, un medico, una o due
badanti … – assistiamo a questa decadenza e diciamo pure a quest’agonia,
come a qualcosa che tutti conosciamo bene, anche chi ne è ancora
biologicamente lontano, ma che nessuno aveva ancora osato rappresentare
con questa precisione, con questa crudele partecipazione. Crudele? Sì, se s’intende con crudele non il compiacimento per i modi in cui il male e i
limiti dell’umano ci si mostrano, ma la necessità di andare a fondo, di
rappresentare il vero per ricavarne una morale primaria, la più
essenziale di tutte, che Haneke esprime a parole soltanto nella parolina
del titolo: Amour. L’amore come unione di due anime e corpi, e
l’insostenibile fatica di accettare che uno dei due si degradi e si
allontani, che la comune biologia ce lo allontani, ma anche l’amore come
caritas, dedizione all’altro, a un prossimo che in questo caso è
diventato -per il mistero dell’amore – il prossimo più prossimo di
tutti.
Assistito da
Jean-Louis Trintignant e da Emmanuelle Riva, due attori coraggiosi e
decisi come il regista ad andare fino in fondo nella rappresentazione
della vecchiaia e della morte, del confronto con la morte – perché non
più attori o non solo attori ma soprattutto vecchi che in quanto tali,
anche oltre il loro stesso decadimento, hanno dovuto confrontarsi con la
vecchiaia altrui e con il dolore -Haneke ha realizzato un film che
vanifica le parole, che impone allo spettatore (e al critico) un
rispetto che va oltre il cinema. Perché ci sono film che sono più che
cinema, e perché ci sono artisti che non vogliono né sbalordirci né
commuoverci ma portarci a ricordare i nostri limiti, proprio quelli di
tutti. Il suo, come quello dei grandi registi del passato, è un cinema
che constata e ci chiede di constatare. E che giustamente esige dallo
spettatore che sappia alzarsi al livello del suo discorso e della sua
espressione. Non più di questo, ma è il massimo. E andare a cercare il
pelo nell’uovo sarebbe, di fronte a questo, più che irrispettoso
ridicolo.
(Goffredo Fofi, Il Sole 24 ore – Domenica 28 ottobre 2012)
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