giovedì 1 ottobre 2009

Diecimila querce, mi dicevo, occupano davvero un grande spazio


Ieri mattina ero felice. Aspettando che aprisse la segreteria della primaziale per prendere gratis due biglietti per Anima Mundi di domenica ho fatto un giro fino a Piazza dei Cavalieri e, entrato in una libreria, un libretto mi ha chiamato e l'ho acquistato. Ieri sera l'ho letto. È L'uomo che piantava gli alberi di Jean Giono.

Il pastore che non fumava prese un sacco e rovesciò sul tavolo un mucchio di ghiande. Si mise ad esaminarle l'una dopo l'altra con grande attenzione, separando le buone dalle guaste. Io fumavo la pipa. Gli proposi di aiutarlo. Mi rispose che era affar suo. In effetti: vista la cura che metteva in quel lavoro, non insistetti. Fu tutta la nostra conversazione. Quando ebbe messo dalla parte delle buone un mucchio abbastanza grosso di ghiande, le divise in mucchietti da dieci. Così facendo, eliminò ancora i frutti piccoli o leggermente screpolati, poiché li esaminava molto da vicino. Quando infine ebbe davanti a sé cento ghiande perfette, si fermò e andammo a dormire.


Da tre anni piantava alberi in quella solitudine. Ne aveva piantati centomila. Di centomila ne erano spuntati ventimila. Di quei ventimila contava di perderne ancora la metà, a causa dei roditori o di tutto quello che c'è di imprevedibile nei disegni della Provvidenza. Restavano diecimila querce che sarebbero cresciute in quel posto dove prima non c'era nulla.


Le querce del 1910 avevano adesso dieci anni ed erano più alte di me e di lui. Lo spettacolo era impressionante. Ero letteralmente ammutolito e, poiché lui non parlava, passammo l'intera giornata a passeggiare in silenzio per la sua foresta. Misurava, in tre tronconi, undici chilometri nella sua lunghezza massima. Se si teneva a mente che era tutto scaturito dalle mani e dall'anima di quell'uomo, senza mezzi tecnici, si comprendeva come gli uomi potrebbero essere altrettanto efficaci di Dio in altri campi oltre alla distruzione.




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